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Condizione femminile
Gli studi sulla condizione femminile
A partire dagli anni Sessanta, sulla scorta delle rivendicazioni sociali e politiche che hanno dato luogo al composito movimento noto come ‘femminismo’, anche gli studi classici hanno conosciuto un diffuso risveglio d’interesse per la storia, la sociologia, l’antropologia del mondo femminile in età antica. Ne è nato addirittura un autonomo filone di ricerche, i cosiddetti Women Studies, particolarmente fertile in àmbito anglofono (specie statunitense) e francofono, e oggi ormai del tutto canonizzato.
Le ricerche dedicate alla condizione femminile in età antica si scontrano tuttavia con un ostacolo strutturale: l’assenza pressoché completa di testimonianze che non siano mediate attraverso una prospettiva maschile (pur con alcune discusse eccezioni, fra cui il caso di Saffo); le donne antiche sono cioè oggetto ma non soggetto di testimonianza. Anche da qui l’interesse prevalente degli Women Studies per i discorsi maschili sulle donne, per la costruzione sociale e culturale degli stereotipi e dei pregiudizi relativi al mondo femminile, per la loro frequente assunzione a dogmi pseudo-scientifici e per la loro costituzione in una compiuta teoria della differenza sessuale (i cosiddetti Gender Studies, le ricerche sulle differenze fra i sessi), che in molti casi manifesta una lunga o lunghissima durata, conducendo dal mondo antico sino alle soglie (e non solo) della contemporaneità.
La donna in Grecia
Lo statuto della donna in Grecia appare variabile, come ogni altra realtà storica, in base ai diversi luoghi e ai diversi tempi compresi nell’arco assai esteso della storia ellenica. Alcuni elementi sono tuttavia considerati altrettante costanti della condizione femminile in Grecia: la diffusa sottomissione giuridica della donna all’uomo (con sostanziale esclusione dal diritto di cittadinanza); la preclusione di determinate attività ritenute monopolio del mondo maschile; per converso, il monopolio riconosciuto alle donne su determinate attività che risultano interdette (o comunque disonorevoli) per un uomo; il conseguente tratteggio di una caratterologia femminile ritenuta ‘naturale’ – inversa e simmetrica rispetto alla corrispondente caratterologia virile – piuttosto che ascritta a precise condizioni sociali, economiche e culturali.
La donna in Omero
L’epica omerica abbonda di ritratti femminili: da Elena a Penelope, da Ecuba ad Andromaca, dalle schiave Briseide e Criseide alla regina Arete e a sua figlia Nausicaa, dalle insidiose Circe e Calipso al complesso mondo delle dee olimpiche.
Si ritiene spesso che in Omero rimangano tracce rilevanti di uno stadio evolutivo in cui la donna doveva godere di diritti assai ampi: se non un originario ‘matriarcato’ – ipotesi a cui gli storici concedono ormai ben poco credito – comunque una situazione sociale molto diversa da quella che fu poi tipica della polis; a questo proposito, si cita volentieri l’autorità di cui sembra godere, presso la corte di Alcinoo, la regina Arete. In realtà, in Omero si dà già per codificata l’originaria divisione del lavoro che condizionerà a lungo la separazione dei sessi: all’uomo spetta la guerra, alla donna la filatura, la tessitura e la supervisione delle ancelle, come Ettore ricorda ad Andromaca (Iliade VI 490-493); e, benché figure d’eccezione quali Elena e Arete possano aver parte a un’attività tipicamente virile, come sarà sempre il banchetto, i rimproveri che Telemaco rivolge alla madre Penelope (Odissea I 356-359), ricorrendo formularmente alle stesse parole di Ettore e vietandole di interessarsi allo svolgimento del convito, danno a vedere quale doveva essere considerata la norma.
Si evidenzia così quell’opposizione fra interno ed esterno, fra casa e società (e all’interno della casa, fra ambienti maschili e gineceo), che rimarrà per secoli il principale omologo dell’opposizione fra donna e uomo, le cui sfere d’influenza saranno poste rispettivamente sotto il patronato divino di Estia (il focolare, le attività domestiche) e di Ermes (la città e le sue pratiche sociali). Il giudizio sui pregi femminili – si tratti di Elena agli occhi di Priamo, o di Criseide agli occhi di Agamennone – verte innanzitutto sulla bellezza: quindi sulla moderazione (sophrosúne) e sulle capacità di svolgere adeguatamente i propri compiti.
Il costante controllo maschile sulla sessualità femminile è del resto ben esemplificato dalle figure contrapposte di Clitemnestra e di Penelope (un confronto che Agamennone, ormai morto, istruirà nell’Ade di fronte a Odisseo: Odissea XI, 444 ss.) e dalla stessa punizione che il re di Itaca infliggerà alla ancelle colpevoli di aver avuto una relazione con i Proci. Già tradizionale in Omero sembra del resto la scissione della figura femminile in «moglie legittima» (kouridíe álochos) e concubina, secondo un assunto che appare poi canonizzato nel celebre asserto di un’orazione attribuita a Demostene (Contro Neera, 122): «abbiamo le etère per il piacere, le concubine per le cure quotidiane, le mogli perché ci diano figli legittimi e sorveglino fedelmente il nostro patrimonio». Da un punto di vista antropologico, in Omero come altrove, la donna rappresenta – accanto alle ricchezze – un bene circolante attraverso le case degli uomini, secondo i dispositivi previsti dal matrimonio.
Donna e letteratura arcaica
La nascita della prima donna (Pandora) è un mito narrato da Esiodo secondo gli accenti di quella misoginia che si ritiene caratteristica della rappresentazione arcaica della donna: «da lei viene la stirpe funesta delle donne / che abitano fra gli uomini, grande malanno per i mortali» (Teogonia, 590 s.). Agli occhi di Esiodo la donna è innanzitutto un consumatore, laddove l’uomo è per essenza un produttore (Opere, 519 ss.): un’immagine che alterna con l’altra, più fortunata, secondo cui la donna è per sua natura un’amministratrice dei beni prodotti dall’uomo. Violente satire del mondo femminile e dei suoi infiniti difetti (innanzitutto la pigrizia, l’incontinenza, la superbia, la stupidità) vengono da Semonide di Amorgo, da Focilide (VI secolo a.C.), ma anche da Alceo (cui si deve un celebre ritratto dell’erotomania femminile, ispirato a Esiodo) e in genere da tutta la poesia giambica (accanto al citato Semonide, Archiloco e Ipponatte).
Si ritiene spesso che a tali clichés sfugga Saffo, cui spetterebbe il merito di aver elaborato – caso unico nella cultura antica – una visione del mondo compiutamente femminile, oggetto di insegnamento nelle comunità per sole donne attive in Lesbo arcaica (su natura e fini di tali comunità, dette ‘tiasi’, il dibattito è più che mai aperto): ma è difficile credere che una simile educazione fosse finalizzata ad altro che al matrimonio, e che il presunto anticonformismo di Saffo non debba molto proprio a quella ‘divisione del lavoro’ (cioè dei rispettivi ruoli e delle identità) che era stata elaborata dalla cultura maschile dominante. Un discorso analogo vale probabilmente per Alcmane e per i suoi parteni: canti cultuali affidati a un coro di giovani donne e inquadrabili nel cursus iniziatico dei riti adolescenziali celebrati a Sparta come altrove.
Il ruolo della donna nella polis
Mentre gli stereotipi relativi al carattere femminile saranno ampiamente diffusi e approfonditi dalla letteratura classica (e in particolare dalla drammaturgia e dall’oratoria), la polis costruisce i meccanismi istituzionali che determineranno per buona parte della storia greca la condizione della donna. Oggetto di scambio fra due cittadini (il padre e il marito) tramite l’istituto del matrimonio, la donna non gode in genere del diritto di cittadinanza. La sua principale funzione è quella di generare figli legittimi (così suona la formula matrimoniale in uso ad Atene per tutto il periodo classico) e di gestire l’oîkos (a un tempo la casa e il patrimonio) di cui il marito mantiene la titolarità e assicura il rapporto con l’esterno.
La già citata coppia Estia/Ermes dètta le sue leggi ai due àmbiti delle prerogative femminili e maschili: da una parte il focolare e la dispensa, dall’altra la piazza e l’assemblea; all’uomo spetta la politica, alla donna l’economia nella sua accezione etimologica: l’amministrazione della casa (oîkos, da cui oikonomía). Accanto a questa, rimane il monopolio femminile sull’educazione dei figli: un fenomeno che qualche studioso, invero piuttosto meccanicamente, ha messo in relazione con la diffusione endemica dell’omosessualità maschile.
Le uniche occasioni in cui le donne abbiano modo di lasciare la casa e di avere rapporti con l’esterno sono le feste religiose, specialmente quelle poste sotto il patronato di divinità femminili (Demetra, Artemide, Afrodite, Era). Perciò, per tutta la classicità, susciterà inquietudine, e costituirà una sorta di rovescio della donna media, l’immagine della baccante, seguace del culto di Dioniso e dedita, con le compagne, ad attività sostanzialmente asociali in un ambiente selvaggio e perciò apolitico.
La ‘reclusione’ della donna è oggetto di una famosa protesta affidata da Euripide alla Medea della tragedia omonima (vv. 244 ss.): «l’uomo, quando si è stufato di vivere con quelli di casa, se ne va fuori e pone fine alla nausea che ha in cuore, recandosi da un amico o da un coetaneo. Noi invece siamo obbligate a guardare a un’unica persona. Dicono che noi trascorriamo la vita senza rischi in casa, mentre loro combattono con la lancia, ma si sbagliano: vorrei essere schierata in battaglia tre volte, piuttosto che partorire una sola volta!» (trad. Galasso-Montana).
Sarebbe in ogni caso scorretto assolutizzare tale immagine della donna, reclusa e priva di diritti: è probabile infatti che la condizione così descritta valesse soltanto per le donne delle classi medio-alte, laddove alle popolane era concesso – per ragioni di lavoro – circolare liberamente nella polis. Una vita ben diversa toccava inoltre alle etère, la cui grande libertà – spesso non disgiunta da una grande sapienza mondana e da una considerevole cultura, com’è nel caso celebre di Aspasia, compagna di Pericle – andava comunque di pari passo con lo status di straniere e con una considerazione sociale certo non onorevole.
Un caso eccezionale pare rappresentato dalle donne di Sparta, che – secondo molte fonti – trascorrevano la maggior parte del loro tempo all’aria aperta, impegnate in esercizi ginnici che ne assimilavano l’educazione a quella dei maschi Spartiati, cittadini a pieno titolo: ma non si deve dimenticare che tale pratica, per esplicita testimonianza, aveva come fine riconosciuto la generazione di figli più forti e più sani.
La condizione femminile, che qui si è descritta nelle linee essenziali, non tarderà a ricevere una ratifica sul piano ‘scientifico’ nella dottrina che, in relazione alla divisione dei sessi, elaboreranno autori di vasta fortuna come Aristotele: l’inferiorità naturale della donna, ancor prima che dalla psichiatria ottocentesca, avrà un robusto sostegno dalla biologia e dalla psicologia antiche. Conferme (per contrasto) a questo stato di fatto forniscono le utopie comiche di Aristofane (che a più riprese immagina la realizzazione di una paradossale ginecocrazia, con le donne al potere nelle assemblee della polis, impegnate in fondamentali decisioni sulla politica estera e sull’economia statale) e anche le posteriori raccolte aretalogiche (per esempio in Plutarco), che attraverso la collezione delle ‘virtù femminili’ e delle loro incarnazioni in figure esemplari (ed eccezionali) non faranno che suffragare il modello maschile (cioè maschilistico) dominante.
La donna romana
Si usa dire che, a paragone della donna ateniese, la donna romana gode di una condizione e di uno statuto giuridico infinitamente più favorevoli. Il che è vero in parte. Già la legislazione romana relativa al matrimonio deve tener conto di un fattore di differenziazione assai cospicuo rispetto alla Grecia: la donna romana (la filia familias) è a tutti gli effetti dotata di diritti economici che le consentono di ereditare dal pater familias e di disporre – pur entro limiti assai ristretti – del patrimonio avito. Tale facoltà era tuttavia ampiamente compensata dal diffuso pregiudizio (ben presto ratificato a livello giuridico) per cui la donna, in virtù di una naturale infirmitas o imbecillitas mentis («debolezza intellettuale»), non poteva prendere decisioni senza essere affiancata da un tutore legale (maschio, adulto e cittadino). Faceva sensazione agli occhi dei greci il fatto che le matrone romane potessero partecipare ai banchetti e ai simposi: il divieto era invece assoluto – con l’eccezione delle etère e delle suonatrici di aulo – per le donne greche. Inoltre, la storia repubblicana esemplifica largamente il ruolo che mogli e madri hanno giocato nella carriera politica di figli e mariti (la moglie e la madre di Coriolano; Cornelia, la madre dei Gracchi, ecc.).
Tutto ciò non deve però far dimenticare la discriminazione strutturale che presiede, fra le altre cose, alle leggi del matrimonio e alla formazione della famiglia romana. L’esclusione della donna dall’esercizio della potestas familiare (con tutto ciò che questo comporta in termini di diritto successorio) è una costante della storia romana. E l’elaborazione di stereotipi secolari sul carattere delle donne (si pensi solo a Giovenale) deve alla cultura romana ancor più di quanto debba alla cultura greca: dai romani li erediteranno i Cristiani, che, nonostante l’egualitarismo che anima il cristianesimo primitivo, non tarderanno a far propri e addirittura a rincarare i pregiudizi sessistici della cultura pagana.
[Federico Condello]
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