Euripide
(gr. Eurupídes,
lat. Euripides)
Cenni biografici
La più diffusa tradizione biografica antica vuole che Euripide
sia nato nell’isola di Salamina nel 480 a.C.: cioè in corrispondenza
della vittoriosa battaglia che vide i Persiani sgominati sul mare dinanzi
ad Atene; il preteso sincronismo coinvolge
altresì gli altri due grandi tragici attici: nello stesso anno
Eschilo avrebbe valorosamente combattuto
il nemico e Sofocle avrebbe guidato
il coro di giovani che intonarono il peana per la vittoria. Più
verosimile risulta quindi la data del 485/84 a.C. fornita dal Marmor
Parium (anche se ciò mette la nascita di Euripide in evocativa
- e perciò sospetta - corrispondenza con la prima vittoria tragica
di Eschilo).
Che Euripide fosse figlio di un bottegaio e di un’ortolana, come
vogliono le maldicenze comiche (specialmente di Aristofane),
è smentito dalla semplice constatazione che il giovane poeta
ricevette un’educazione inconcepibile per un popolano e che egli
ricoprì il prestigioso incarico di tedoforo nel culto di Apollo
Zosterio: la sua famiglia doveva
essere dunque almeno benestante; il padre si chiamava Mnesarco (o Mnesarchide)
e la madre Clito, entrambi originari del demo attico di File: anche
i nomi dei genitori sembrano rimandare a un’ascendenza nient’affatto
popolaresca. Scarsamente attendibili sono molte altre notizie relative
alla biografia del poeta: i disastrosi matrimoni (prima con Melitò
e poi con Cherìne), per esempio, sono probabilmente il riflesso
dell’accusa di misoginia che divenne un luogo comune sin da Aristofane;
non meno fantasioso il dato relativo all’abitudine di ritirarsi
in una grotta di Salamina per comporre le proprie tragedie. Che Euripide
abbia avuto rapporti non saltuari con alcuni dei grandi intellettuali
suoi contemporanei, e in particolare con i più illustri rappresentanti
della nuova filosofia e della sofistica,
è alquanto probabile: ma certo non si può prendere alla
lettera la notizia secondo cui egli sarebbe stato allievo dei filosofi
Anassagora, Prodico, Protagora e Socrate, benché non siano rare,
nelle sue tragedie, le tracce di apporti teorici provenienti dai più
avanzati settori della filosofia coeva.
L’esordio sulle scene è datato al 455 a.C., ma la prima
vittoria negli agoni tragici ateniesi
deve attendere il 441 a.C. Lo scarto cronologico merita attenzione,
ed è stato spesso considerato un vistoso indizio – unitamente
all’esiguo numero delle vittorie riportate: solo 4 a fronte di
ca. 90 drammi e di una carriera pressoché cinquantennale –
del cattivo rapporto che legò Euripide agli spettatori delle
scene attiche; un rapporto la cui conflittualità si attribuisce
allo sperimentalismo e allo spregiudicato antitradizionalismo del poeta,
che fu considerato un innovatore o addirittura un rivoluzionario non
solo sul piano delle soluzioni drammaturgiche, ma anche e soprattutto
sotto il profilo dei contenuti etici e filosofici. Per questo al termine
della sua carriera egli avrebbe lasciato Atene, ritirandosi in Macedonia,
alla corte di Archelao a Pella, dove la morte lo colse nel 406 a.C.:
per opera di una muta di cani rabbiosi, secondo un altro ispirato aneddoto
raccolto dalla tradizione biografica antica. Un’ultima vittoria,
postuma, è stata conseguita con la trilogia comprendente Baccanti
e Ifigenia in Aulide, presentate da Euripide il giovane (figlio
o forse nipote del poeta). Le presunte ruggini fra il drammaturgo e
il suo pubblico – rincarate dalle frequenti ironie dei commediografi
– non hanno impedito che sin dalle Rane di Aristofane (405
a.C.), egli venisse considerato uno dei tre più grandi rappresentanti
della tragedia attica: una fama destinata a consolidarsi, anzi ad accrescersi,
con i secoli successivi.
Le opere
Ad Euripide gli antichi attribuivano la presentazione agli agoni ateniesi
di ben 22 tetralogie drammatiche, ovvero di 88 pièces
fra tragedie e drammi satireschi; la cifra complessiva di 92 drammi,
tramandata da alcune fonti, comprende altresì tre tragedie (perdute)
ritenute spurie sin dall’antichità, nonché il Reso,
la cui paternità euripidea è oggi contestata dalla quasi
totalità degli studiosi. A questa imponente produzione vanno
aggiunti almeno un epinicio per una vittoria equestre di Alcibiade alle
Olimpiadi (416 a.C.) e un epigramma
per le vittime della spedizione ateniese contro Siracusa nel 415-413
a.C.
Di tante opere sono giunti sino a noi solo 19 drammi (fra cui il Reso
e il dramma satiresco Il ciclope), un numero comunque notevole
a paragone dell’ancor più ristretto corpus testuale
cui si riduce per noi la conoscenza di Eschilo e di Sofocle, e ben più
di un migliaio di frammenti, destinati peraltro a continuo accrescimento
per l’apporto della ricerca papirologica. Tali cifre sono il segno
di una fortuna che arrise ad Euripide, se non durante la vita, certo
in tutte le fasi della grecità successiva: dall’età
ellenistico-romana (le sue tragedie si prestavano più di altre
a letture antologiche e recitazioni virtuosistiche, che sopravvissero
alla fine del teatro classico) sino al periodo tardo-antico e all’intera
epoca bizantina, quando Euripide fu da una parte saccheggiato per stralci
e citazioni da antologisti e gnomologi (specie per il carattere ‘sentenzioso’
e filosofeggiante di molti suoi brani), dall’altra assunto a vero
e proprio testo scolastico e anche perciò destinato a una cospicua
tradizione manoscritta.
I drammi sopravvissuti coprono quasi solo una parte del cinquantennio
di attività attraversato dal poeta: del tutto esclusi sono i
primi quindici anni, e buona parte delle opere superstiti copre soltanto
i 20 anni finali. Solo un numero esiguo di esse può essere datato
con sicurezza: l’Alcesti, la tragedia più antica
sopravvissuta, è del 438 a.C.; la Medea è del 431
a.C., il rifacimento dell’Ippolito (il cosiddetto Ippolito
incoronato, seconda versione dell’Ippolito velato,
che è per noi perduto) è del 428 a.C., le Troiane
del 415 a.C., l’Elena del 412 a.C., l’Oreste del
408 a.C. La datazione degli altri 9 drammi (se si eccettua il Reso,
probabilmente pseudo-euripideo) può essere effettuata soltanto
sulla base di criteri interni (l’allusione a eventi storici contemporanei
o i dati glottocronometrici, cioè quelli ricavabili dall’analisi
dello stile in genere e dalla tendenza euripidea a rendere sempre più
libero - aumentando la percentuale di ‘soluzioni’ metriche
- il trimetro giambico delle parti recitative) o di testimonianze esterne
(l’allusione a opere euripidee nella commedia, che non di rado
ne fornì gustosi travestimenti parodici).
Si ritiene così che una ricostruzione cronologica attendibile
possa essere la seguente: Alcesti (438 a.C.) – Medea
(431 a.C.) – Eraclidi – Ippolito (428 a.C.)
– Andromaca – Ecuba – Supplici
– Eracle (ca. 415 a.C.) – Elettra (ca. 415
a.C.) – Troiane (415 a.C.) – Elena (412 a.C.)
– Ifigenia in Tauride (ca. 412 a.C.) – Ione
– Fenicie – Oreste (408 a.C.) – Ifigenia
in Aulide – Baccanti (entrambe postume, cioè
successive al 406 a.C.). Assai ardua a determinarsi rimane la datazione,
anche solo relativa, del Ciclope, per il quale mancano compiuti
dati di raffronto (si tratta peraltro dell’unico dramma satiresco
antico sopravvissuto integro).
Tratti caratteristici delle opere
Pochi autori classici come Euripide sono stati sottoposti a giudizi
contrastanti e non di rado contraddittori, che costituiscono peraltro
il riflesso di antinomie e ambiguità effettivamente presenti
nella sua produzione. Così Euripide è stato volta a volta
considerato il più illustre rappresentante del razionalismo attico
(il drammaturgo ‘illuminista’ per eccellenza) o il campione
dell’irrazionalismo antico (profeta di una classicità ormai
al suo finire), il cantore della condizione
femminile e dei suoi infiniti disagi o il misogino istigatore
di mai sopiti sentimenti antifemminili, il rivoluzionario etico-religioso
(l’ateo o agnostico seguace del socratismo e della sofistica)
o il tradizionalista che omaggia il senso comune ed elogia la semplicità
dei culti più consuetudinari, il patriota teorico della democrazia
(e del suo imperialismo) o il pessimista apolitico e critico verso ogni
forma di potere, il poeta che ha perfezionato la tragedia attica o colui
che ne ha causato e promosso la definitiva dissoluzione.
Dati certi, sul piano stilistico e propriamente drammaturgico, sono
senza dubbio i seguenti: il progressivo avvicinamento al ‘parlato’
e il conseguente abbassamento del registro tonale, limitatamente alle
parti recitative; la scelta di personaggi spesso umili, o atteggiati
come tali (i famosi ‘straccioni euripidei’ su cui tanto
ironizzò Aristofane); il grande spazio concesso al prologo
di tipo informativo (recitato da un dio o dall’eroe protagonista
del dramma), all’agone
dialettico fra il protagonista e il suo occasionale antagonista (un
aspetto che risente della pratica sofistica e del dialogo
filosofico), allo scioglimento dell’azione mediante un deus
ex machina (cfr. macchine teatrali),
agli intermezzi corali di carattere narrativo (o, come si è detto,
‘ditirambico’) e ai monologhi
lirici.
In effetti, se le parti recitative vengono da Euripide sottoposte a
un sistematico procedimento di sperimentalismo metrico (il trimetro
giambico sempre più ricco di ‘soluzioni’, il ricorso
generoso all’antilabé),
le parti corali risentono delle analoghe sperimentazioni condotte dalla
teoria musicale coeva, ed è caratteristica di Euripide la mistione
di metri e ritmi del tutto inediti nel teatro precedente. È questo
uno degli aspetti che, unitamente alla grande attenzione per la psicologia
dei personaggi (si pensi a tragedie come Medea o Fedra)
e alla pur non sistematica teorizzazione di una ‘fortuna’
padrona delle sorti umane e delle loro imprevedibili vicende, fa di
Euripide il più diretto anticipatore del teatro ellenistico e
in particolare della Commedia Nuova.
[Federico
Condello]