Intellettuali

Definizione
Per la sensibilità moderna e contemporanea, il termine «intellettuale» – che appare diffuso, specie in area germanica, sin dai primi decenni del secolo XIX, ma che avrà fortuna soprattutto dal 1898 (con il cosiddetto ‘caso Dreyfus’) a partire dalla Francia – evoca l’immagine di un professionista della cultura (scrittore, politologo, sociologo, filosofo) che stabilisca con il potere un rapporto dialettico (di opposizione e/o di connivenza) e che a vario titolo si faccia portavoce di istanze dominanti o marginali dell’opinione pubblica, di cui viene considerato parte integrante e talvolta guida o ispiratore.

Si tratta dunque di una nozione inconcepibile se non in presenza di diffusi mezzi di comunicazione (è inizialmente connessa alla stampa giornalistica) e non di rado esposta – soprattutto da parte dei conservatori – a una connotazione denigratoria o quantomeno ironica. Tutto ciò ne rende difficile il trasferimento acritico all’età antica, sia greca che romana.

Intellettuali e società
Se alla definizione di ‘intellettuale’ risulta essenziale un certo rapporto con il potere – rapporto che a partire dal XIX secolo si connota sempre più spesso come virtuale opposizione – è evidente che i diversi ‘operatori culturali’ della Grecia arcaica possono corrispondervi solo in maniera imperfetta. D’altra parte è stata l’ambiguità via via più evidente del rapporto che l’intellettuale contemporaneo mantiene con il potere a ispirare le ricerche storiche che hanno sottolineato la sostanziale organicità di poeti e filosofi antichi a ben precise classi o ceti che ne hanno condizionato (se non alimentato) l’attività. Si abbandona così la prospettiva squisitamente idealistica che vuole gli intellettuali antichi quasi avulsi dal loro contesto sociale: protagonisti di una storia del pensiero e dell’arte che seguirebbe vie proprie, indifferente alla storia economica, politica e sociale, o addirittura capace di influenzarla e di orientarla.

Sin da Omero, la storia degli intellettuali antichi è piuttosto quella di un controllo più o meno esplicito (e più o meno efficace) esercitato dalla classe dirigente, e per lo più dall’aristocrazia, sui detentori di saperi tecnici che non comprendono solo l’arte e la letteratura, ma anche la divinazione e ogni forma di competenza giuridica e religiosa.

Gli aedi rappresentati dall’Odissea appaiono perfettamente integrati in una corte regale: essi stessi mettono in scena, nelle autorappresentazioni che costellano il poema, quella che doveva essere una competenza essenziale del poeta epico, la capacità di adattare i propri canti alle opinioni e alle aspettative del singolo uditorio (sintomatico il caso di Femio, che rischia di essere ucciso da Odisseo proprio per la sua presunta compiacenza rispetto all’uditorio dei Proci). Tale rapporto di dipendenza è perfettamente rappresentato da Esiodo attraverso la parabola dello sparviero e dell’usignolo: nulla può contro la forza del potere il poeta, che pure fa appello alla giustizia e alla verità che gli provengono da Zeus. Il poeta è sì, secondo una fortunata definizione, ‘maestro di verità’ (Détienne) – titolo che gli spetta anche per il carattere esoterico delle sue conoscenze tecniche, e che spesso lo avvicina al ruolo dell’indovino o del profeta – ma non è perciò meno vincolato a un potere che acquisisce spesso la funzione di autentico committente.

Un diverso rapporto con il proprio contesto sociale offrono i lirici dell’età arcaica: tutti membri, verosimilmente, di circoli simposiali che equivalevano spesso ad altrettante consorterie aristocratiche, essi si propongono come portavoce di dettami autorevoli che intendono ispirare la prassi politica dei propri compagni; poeti come Alceo, Archiloco, Solone, Teognide, si fanno talvolta animatori di un’opposizione radicale, ma tutta interna all’élite dell’aristocrazia: risultano completamente fuori luogo alcuni tentativi moderni di vedere in essi degli antesignani dell’intellettuale contemporaneo, romanticamente inteso come membro déraciné (sradicato) di una società che gli si oppone e di cui egli denuncia crimini e ipocrisie. Un discorso analogo vale per Saffo, e per la sua presunta originalità in rapporto alla condizione femminile dominante nella Grecia arcaica e classica; e certo non si comprende senza uno stabile e organico legame con gli istituti dell’aristocrazia arcaica nemmeno la critica e la satira mordace di poeti giambici come Ipponatte.

In altri casi siamo dinanzi a un rapporto di perfetta e totale integrazione dell’attività poetica entro le strutture sociali e ideologiche della polis (è il caso, per esempio, di Alcmane). Ma che il rapporto fra intellettuali e potere fosse comunque sentito con particolare urgenza mostrano alcune dichiarazioni di Pindaro (in particolare Istmiche, 2, 1 ss.), un poeta corale che per la stessa natura dei suoi canti doveva stabilire un rapporto di piena dipendenza rispetto al committente che era suo compito lodare, assumendo peraltro l’autorevolezza e la solennità della tradizione celebrativa epica, alla quale il cantore di epinici si richiamava per statuto: che l’uomo contemporaneo sia ormai «solo denaro» e che il poeta non possa più aver accesso alla spontaneità e alla gratuità del canto (valori proiettati su un inesistente passato mitico) sono affermazioni che certo evidenziano la subordinazione dell’intellettuale a un rapporto di forza economico e politico, ma che andranno interpretate più come inviti alla liberalità del committente che come autentiche e provocatorie proteste.

È proprio nell’àmbito della poesia corale, del resto, che già la tradizione antica ha riconosciuto i più vistosi esempi di ‘monetizzazione’ del rapporto fra poeta e committente (significativo il caso di Simonide). Il quadro si fa più complesso nel contesto della polis matura. Mentre è stata spesso riconosciuta l’organicità alle strutture cittadine di alcuni fra i primi rappresentanti della filosofia greca (in particolare i pensatori di Mileto, che promossero l’immagine di un cosmo ordinato sul modello della compagine politica), non mancano casi di pensatori che si richiamarono a un orgoglioso elitarismo di matrice aristocratica, e che stabilirono rapporti talvolta conflittuali, talvolta improntati a un’indiscutibile egemonia sapienziale, con le città di riferimento (si considerino per esempio Eraclito, Empedocle, Pitagora, caso quest’ultimo in cui il progetto intellettuale si coniugò con un originale progetto di riforma politica, fortemente marcato in senso nobiliare, non troppo diversamente da quanto poi accadde con Platone).

È vero tuttavia che fra VI e V secolo a.C. i grandi intellettuali del passato andarono più spesso assurgendo al ruolo di autorità leggendarie, panelleniche, cariche di un prestigio che favorì una diffusa universalizzazione dell’ideologia aristocratica e dell’etica tradizionale: è da una humus analoga che sorsero più tardi le figure idealizzate dei Sette Sapienti, che sintomaticamente congiungevano – nella maggioranza dei casi – il ruolo di politici e di intellettuali.

Nell’Atene del V secolo a.C. il grande dispositivo dell’attività teatrale diede origine a quella che alcuni studiosi giudicano una vera e propria ‘educazione di massa’. Non è casuale il controllo esercitato da alcune grandi personalità politiche sul messaggio veicolato dalle rappresentazioni tragiche (si pensi al rapporto fra Temistocle, Pericle ed Eschilo), mentre talvolta sia la tragedia che la commedia potevano esercitare un’esplicita funzione di ‘critica’ nei confronti della democrazia e dei suoi leaders: Aristofane, che secondo le fonti non mancò di incorrere in fastidiose grane legali per i suoi attacchi al potere, teorizza nelle Rane un ruolo di ‘educatore’ e ‘consigliere’ per il poeta drammatico, non di rado scagliandosi contro quegli intellettuali che, come i sofisti, andavano intrecciando rapporti sempre più ambigui (talvolta di piena e organica collaborazione, talaltra di virtuale opposizione) rispetto ai ceti dominanti.

Ma ciò avviene proprio al tramonto di quello che è considerato il periodo di maggior impegno per una letteratura (quella tragica e soprattutto comica) che non tarderà a ripiegarsi, nel corso del IV secolo a.C. e sino a tutto l’ellenismo, su un marcato interesse per la dimensione del privato, ormai alieno da ogni forma di impegno politico diretto. Nel frattempo un’indubbia funzione antagonistica rispetto alla polis democratica era stata esercitata dal filone di pensiero che attraverso la sofistica – pur ambiguamente connotata in termini politici – giunge sino a Socrate e all’aristocratico Platone. Con Socrate, anzi, siamo di fronte al primo grande esempio di intellettuale processato e ucciso per le sue idee dalla restaurata democrazia di Atene: anche in questo caso, ci si dovrà però guardare dall’interpretare il conflitto come un contrasto fra il ‘potere’ politico in sé e un’intellettualità neutra e orgogliosamente autonoma; si è piuttosto portati a pensare che nell’intellettuale sia stato colpito il rappresentante (più o meno consapevole) di una ben precisa parte politica. In ogni caso, sulla scorta di Socrate e del suo esempio, è ai filosofi che nei secoli successivi – sino all’assorbimento della civiltà ellenica nel contesto della civiltà romana – viene affidata dalla tradizione una funzione di critica e di antagonismo nei confronti del potere costituito, mentre la poesia si ripiega sempre più sul culto della forma e dell’erudizione che fu tipico dei letterati ellenistici (per esempio Callimaco o Apollonio Rodio), attivi all’ombra delle grandi corti alessandrine: e il motivo dell’intellettuale che si oppone al tiranno, talvolta affrontando la morte per le sue idee, diventerà un autentico topos della biografia filosofica. Finendo il più delle volte per coinvolgere personaggi che – valga l’esempio di Seneca – con il potere avevano intrattenuto rapporti tutt’altro che innocenti o improntati a una rigorosa autonomia.

Una vigorosa rifioritura del concetto di ‘intellettuale’ – per di più dotato di quei caratteri ‘enciclopedici’ che sembrano inerenti alla definizione moderna del termine – si avrà nel corso del II secolo d.C., con la cosiddetta ‘seconda sofistica’: ma si tratterà, nella stragrande maggioranza dei casi, di figure culturali (spesso addirittura conferenzieri itineranti) perfettamente organici all’ideologia imperiale.

[Federico Condello]