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Pindaro
(gr. Píndaros, lat. Pindarus)
Notizie biografiche
Il poeta che sin dall’antichità si considera il principale esponente della lirica corale, nonché una delle massime voci della lirica di tutti i tempi, nacque nella località di Cinocèfale, presso Tebe in Beozia, e ironizzò orgogliosamente egli stesso sulla nomea proverbiale che voleva i Beoti rozzi e ignoranti per antonomasia. La data di nascita è incerta, ma poiché le fonti antiche fanno coincidere l’akmé (cioè il pieno sviluppo biografico e intellettuale) di Pindaro con il fatidico 480 a.C., anno del secondo attacco persiano contro i Greci, si può collocarla con una certa approssimazione intorno al 520 a.C. Senza dubbio il poeta proveniva da una famiglia altolocata, benché resti del tutto aleatoria l’ipotesi di una sua origine aristocratica; è verosimile che egli abbia compiuto il suo tirocinio ad Atene, dove forse venne in contatto con Laso di Ermìone, riconosciuta autorità nel campo del ditirambo e apprezzato innovatore delle tecniche musicali. Non si sa con certezza a quale periodo risalgano gli esordi poetici di Pindaro, ma il più antico fra gli epinici a noi noti è del 498 a.C. La carriera del poeta, da questo momento, si svolge e si sviluppa attraverso i successivi contatti con le corti aristocratiche e tiranniche o con le poleis che commissionarono via via i suoi testi celebrativi, secondo una formula di diretta dipendenza economica e quindi di ‘professionalizzazione’ del poeta che era stata già ampiamente praticata da Simonide. Pindaro risulta così legato dapprima con la Tessaglia, quindi con Delfi e con Egìna, poi con Atene (che egli celebrò dopo le imprese belliche della guerra persiana, benché la sua città e Pindaro stesso fossero rimasti fedeli a un neutralismo, se non addirittura a un aperto filomedismo, che molto costò in termini di prestigio panellenico), infine soprattutto con la Sicilia e con le corti di Ierone a Siracura e di Terone ad Agrigento. Nello stesso periodo – cioè intorno al 475 a.C. – a Siracusa erano presenti anche Simonide e Bacchilide, che probabilmente furono diretti rivali di Pindaro, nei cui testi già i commentatori antichi riconoscevano (ma probabilmente a torto) malevole allusioni all’indirizzo dei due colleghi. È certo che i rapporti con le diverse corti aristocratiche fruttarono al poeta non solo un notevole successo, ma anche cospicue rendite finanziarie, sulle quali – al pari di quelle che fecero ricco Simonide – gli antichi favoleggiavano e spesso spendevano parole di moralistico biasimo. Verso la fine degli anni ’60 del V secolo a.C. Pindaro interruppe i rapporti con la Sicilia (Ierone muore nel 466 a.C.) e ritorna a lavorare per committenti della Grecia continentale (Tebe, Corinto, Argo, ma anche Rodi ed Egina in àmbito insulare e Cirene in àmbito coloniale). Inoltre, accanto alla produzione propriamente celebrativa, cioè agli epinici, è cospicuo l’impegno di Pindaro per la stesura di canti cultuali commissionati da numerosissime poleis greche, da Atene a Sparta, da Delfi ad Argo, da Tebe a molte isole dell’Egeo. L’ultimo epinicio a noi noto data al 446 a.C., ed è probabile che il poeta sia morto poco dopo: secondo la tradizione sarebbe morto ad Argo, insieme al giovane da lui amato, Teòsseno, ma si tratta di un dettaglio probabilmente romanzato.
Opere
L’enorme produzione poetica di Pindaro fu divisa dai filologi alessandrini (e in particolare da Aristofane di Bisanzio) in 17 libri, secondo i diversi generi praticati dal poeta. Possediamo due liste antiche (cioè due ‘indici’) di tale imponente raccolta; la prima è contenuta nella cosiddetta Vita Ambrosiana (una delle quattro biografie conservate dai codici medievali, e risalenti in ultima analisi all’attività di biografi e storici della letteratura di età ellenistica), mentre la seconda è stata restituita da un importante papiro di Ossirinco (n. 2438, del II secolo d.C.). Le due liste non collimano in più di un dettaglio, a cominciare dall’ordine dei libri e dal numero dei volumi contenenti gli iporchèmi, una delle specialità poetiche praticate da Pindaro (essi sono due nella Vita Ambrosiana, uno nel Papiro di Ossirinco 2438); inoltre la Vita Ambrosiana rispetta una tradizionale tripartizione dell’opera poetica pindarica in ‘canti per gli dèi’, ‘canti per gli uomini e gli dèi’ e ‘canti per gli uomini’.
In ogni caso i generi poetici testimoniati da entrambe le liste comprendono: 1) ditirambi (canti cultuali originariamente dedicati a Dioniso, con un marcato carattere narrativo); 2) prosòdi (canti cultuali di ringraziamento, per lo più dedicati ad Apollo e Artemide); 3) partenii (canti cultuali dedicati per lo più alle iniziazioni adolescenziali e affidati a un coro di fanciulle); 4) encomi e scolii simposiali (canti di ‘elogio’ per uomini, spesso intonati durante il convito); 5) inni (canti cultuali in onore di dèi); 6) iporchèmi (canti cultuali accompagnati da caratteritiche evoluzioni orchestiche, e spesso dedicati ad Apollo); 7) treni (canti cultuali per cerimonie funebri); 8) epinici (canti per le vittorie nelle competizioni atletiche, eseguiti da un coro, ma talvolta anche da un solista virtuoso). È quest’ultimo il genere poetico per cui Pindaro andò più noto sin dall’antichità, e non a caso è l’unico àmbito del quale siano sopravvissuti, e in misura cospicua, testi integri.
Gli epinici di Pindaro
I canti per le vittorie nelle competizioni atletiche panelleniche (cioè per i cosiddetti ‘giochi sacri’ di Olimpia, Delfi, Nemea e Corinto) erano per lo più affidati a un coro che li eseguiva al ritorno del vincitore nella sua patria, benché non sia raro che un epinicio trovi la sua collocazione nella festa estemporanea che segue immediatamente, sul luogo dell’agone, la vittoria dell’atleta. Il genere è strettamente legato alla politica di propaganda perseguita tanto dalle grandi famiglie aristocratiche, quanto dalle poleis, che nella vittoria di un loro atleta vivevano un momento di gloria nazionale dalla sicura risonanza panellenica. Praticato ben prima di Pindaro (certo già da Simonide e forse da Ibico), l’epinicio ha con il poeta di Tebe (e con il suo contemporaneo Bacchilide) il suo momento di massimo splendore. Esso segue una struttura convenzionale facilmente riconoscibile (in particolare per la presenza di un ‘nucleo’ narrativo di carattere mitico, grazie al quale la vicenda personale del laudandus, cioè dell’atleta oggetto di lode e spesso committente del canto, veniva sublimata in un esempio di portata universale). I canti (‘odi’) di vittoria pindarici sono stati divisi sin da età alessandrina in quattro libri, intitolati secondo le diverse sedi dei successi atletici celebrati: le Olimpiche (14 canti dedicati a vincitori delle Olimpiadi), le Pitiche (12 canti dedicati ai vincitori dei giochi di Delfi), le Istmiche (8 canti dedicati ai vincitori dei giochi dell’Istmo di Corinto: ma i manoscritti conservano anche l’inizio di un nono componimento, sicché è certo che il libro sia giunto incompleto), le Nemee (11 canti dedicati ai vincitori dei giochi Nemei [nel Peloponneso meridionale]; il libro doveva chiudere la raccolta degli epinici, e perciò si sono aggiunti ad esso carmi originariamente estranei).
Gli epinici di Pindaro rappresentano un corpus testuale di straordinaria importanza, non solo per il loro intrinseco valore poetico, ma anche perché essi costituiscono l’unico esempio di canto trionfale tramandato integralmente. Sulla base dell’analisi comparativa, gli studiosi hanno progressivamente riconosciuto un numero ampio, ma chiuso, di motivi ricorrenti, che equivalgono ad altrettante ‘tessere’ tematiche e formali con le quali il poeta componeva volta a volta il canto commissionatogli: dall’elogio del vincitore a quello della sua famiglia, dalla massima di stampo aristocratico e rispondente ai canoni dell’etica tradizionale alle dichiarazioni di poetica, dall’invocazione agli dèi che presiedevano alle gare sino alla narrazione del mito di fondazione delle gare stesse, e via dicendo. I diversi motivi potevano essere combinati con notevole libertà, e spesso con trapassi apparentemente bruschi dall’uno all’altro, sicché lo svolgimento della sfrenata fantasia pindarica (insieme alla concisione del linguaggio e alla straordinaria audacia delle metafore) divenne proverbiale sin dalla critica antica, mentre la critica moderna ha spesso posto il problema dell’unitarietà dei testi pindarici sopravvissuti. La loro estensione è del resto ampiamente variabile, pur restando immutata la struttura strofica di base, centrata sulla cosiddetta ‘triade’ (strofe, antìstrofe, epòdo) che poteva essere ripetuta una o più volte.
I canti pindarici – non solo, ma soprattutto, gli epinici – si segnalano fra l’altro per la particolare ‘ideologia’ poetica che li anima e che trapela in non rari squarci di autoriflessione (e di autopromozione): la poesia dell’epinicio si pone come diretta erede, e come massimo coronamento, della tradizione celebrativa rappresentata dall’epos di Omero, risultando un elemento essenziale alla vita del ceto aristocratico, interpretato come incarnazione di un ordine che è al contempo umano e divino. Il poeta, in tale quadro, si colloca quale voce autorevole e quasi sovrumana, indispensabile alla stessa efficacia della gloria agonistica e del prestigio politico, perché capace di garantire perennità, sanzione universale e finanche risonanza religiosa alle gesta dei festeggiati.
I canti cultuali di Pindaro
La conoscenza almeno parziale della produzione pindarica in un àmbito che costituì un settore importantissimo della sua attività si deve innanzitutto alle scoperte papiracee, e solo in seconda istanza alle sparse citazioni della tradizione indiretta. È questo innanzitutto il caso dei peani (canti cultuali originariamente in onore di Apollo, a titolo di ringraziamento o di invocazione), restituiti in parte consistente da un papiro di Ossirinco (n. 841, a cui altri se ne sono aggiunti in séguito); essi mostrano talora una struttura ‘anulare’ che è probabilmente il riflesso dell’andamento processionale seguito dal coro (così, per esempio, i peani secondo e quarto), e un grande rilievo ricoprono le sezioni mitiche narrative (relative all’origine di una festività o al passato leggendario di una polis). Fra i committenti di tali testi si registrano Tebe, Abdera, Cartea (Ceo), Delfi, e l’insieme dei motivi adibiti dal poeta (al di là delle precise occasioni cultuali e di ciò che questo comporta per la scelta dei temi) mostrano notevoli punti di contatto con gli epinici.
Anche i ditirambi (canti cultuali originariamente in onore di Dioniso) mostrano un caratterizzazione prevalentemente ‘lirica’, cioè lontana dalla declinazione quasi esclusivamente narrativa che diviene una costante con il contemporaneo Bacchilide (e che in séguito sarà considerata un tratto caratteristico del ditirambo).
Fra gli inni spicca per importanza un lungo inno a Zeus commissionato da Tebe, che rievoca la vicenda di Cadmo e Armònia e celebra le Muse – cioè, in ultima analisi, il poeta stesso – quali apportatrici di ordine e di bellezza, secondo una professione di fede poetica che fu costante in tutta la produzione del tebano.
Assai scarsi restano i frammenti dei prosodi, mentre l’apporto dei papiri e della tradizione indiretta ha consentito di conoscere almeno in parte gli encomi (soprattutto la produzione simposiale, a carattere più privato e non di rado omoerotico), i treni (con alcuni accenni di carattere orfico o iniziatico alla vita dell’oltretomba), gli iporchemi (che si segnalano per particolari caratteristiche metriche, senza dubbio connesse all’esecuzione di danza che accompagnava il canto), i parteni (fra cui spicca il canto per una processione tebana dedicata ad Apollo e guidata da un giovane ‘dafnèforo’, ‘portatore di alloro’).
[Federico Condello]
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