Aristocrazia/aristocratico

Significato del termine
Il sostantivo aristokratía, con i suoi affini e derivati, non compare in Grecia prima dell’ultimo trentennio del secolo V a.C. (le prime attestazioni sono in Tucidide e in Aristofane, benché il tema sia già concettualizzato in Erodoto) e si generalizzerà soltanto con la riflessione politologica del secolo successivo, in particolare con Platone e Aristotele. Tuttavia, gli studiosi sono inclini a porre sotto il segno di ‘pensiero’ o ‘ideale’ aristocratico – pur attraverso metamorfosi radicali e profonde evoluzioni – pressoché tutte le elaborazioni letterarie e ideologiche della Grecia arcaica e classica, dai poemi di Omero (e addirittura del più ‘rustico’ Esiodo) sino ai prodotti dell’Atene democratica, con alcuni picchi di particolare vigore e chiarezza nelle testimonianza di autori come Teognide, Pindaro, Crizia, Tucidide, lo Pseudo-Senofonte, Platone, Aristotele; di stampo prettamente aristocratico pare del resto la cosiddetta etica tradizionale.

Da un punto di vista etimologico, aristokratía è sostantivo composto dall’aggettivo superlativo áristos («il migliore», da una radice ar- che ritorna in areté «valore») e dal sostantivo krátos («potere», ma in un’accezione marcatamente differenziale: «superiorità», «prevalenza», «predominio»). Da un punto di vista sincronico, aristokratía si inserisce nella sequenza composta altresì da monarchía e demokratía, distinguendosi da esse secondo un criterio destinato a lunga fortuna: se monarchía è il governo di un solo uomo (eventualmente degenerato in tirannide), e demokratía il governo di molti uomini (il dêmos, «popolo»), aristokratía è il governo di pochi uomini ritenuti «i migliori», «i più nobili» o «i più capaci»; in questo senso esso è un sinonimo positivamente connotato del più neutro oligarchía («governo dei pochi»).

La prima definizione di aristokratía nella sua duplice opposizione a monarchía e a demokratía, appare nel dibattito costituzionale che in Erodoto (Storie, III 80) vede fronteggiarsi i tre aspiranti alla successione del re persiano Cambise (sostenitore dell’opzione aristocratica è Megabizo). Questa articolazione in tre membri delle possibili forme politiche (che Aristotele raddoppierà in altrettante forme ‘degenerate’ delle tre originarie) è destinata a una fortuna secolare, ben al di là del dominio greco.

Ma nel corso dell’evoluzione storica dell’aristocrazia, è evidente che essa, nella sua fase più arcaica, tende a opporsi innanzitutto alla monarchia e alla tirannide (pur non senza ambiguità), professando ideali di uguaglianza interna (naturalmente ristretta a una élite) e di equilibrio che saranno poi ereditati – tramite il concetto di isonomía – dal pensiero democratico; solo in un secondo tempo, ossia a partire dall’emersione di nuovi ceti mercantili, ben testimoniata in Teognide e in Solone, e soprattutto in seno alla democrazia ateniese del secolo V a.C. (specie nell’opera del cosiddetto Pseudo-Senofonte, autore di una Costituzione degli Ateniesi di spiccata inclinazione anti-democratica), l’asse dell’opposizione tenderà a spostarsi verso il popolo inteso come ‘massa’ o ‘moltitudine’ caotica e intemperante: un’antitesi che eclissa in parte l’originaria vocazione antimonarchica e antitirannica dell’aristocrazia, divenendo un elemento pressoché costante del concetto moderno e contemporaneo di ‘aristocratico’. A partire dal secolo V a.C., tale antitesi si tradurrà nell’opposizione fra i modelli rappresentati da Sparta (aristocratica) e da Atene (democratica), con una polarizzazione che coinvolgerà non solo buona parte delle póleis greche, ma anche alcune importanti produzioni intellettuali coeve e successive. In ogni caso, al di là di tale fortunata contrapposizione, anche nell’Atene ‘democratica’, almeno sino all’età di Pericle (morto nel 429 a.C.), il potere resterà saldamente nelle mani dell’élite aristocratica, che esprimerà non solo alcuni dei più illustri rappresentanti dell’oligarchia (da Milziade a Cimone, da Alcibiade al ‘tiranno’ Crizia) e molti degli intellettuali che fecero la fortuna secolare dell’Atene classica (da Sofocle a Tucidide sino a Platone), ma anche un cospicuo numero di leaders cosiddetti ‘democratici’ (dal vecchio Solone a Temistocle, da Pericle a Trasibùlo).

Evoluzione del concetto
È opinione comune che il più antico ideale aristocratico elaborato dai Greci si sia depositato nella rappresentazione che Omero fornisce del mondo eroico e del suo stile di vita. Tale rappresentazione reca le tracce di quello che dovette essere il passaggio dalla regalità di tipo miceneo (simboleggiata in parte da Agamennone, in parte da Priamo) all’affermazione di ceti dominanti aristocratici non più sottoposti all’autorità del sovrano (sintomatica la condotta di Achille, ma in genere quella di tutti i capi greci nei confronti dei propri contingenti militari), da situarsi fra i ‘secoli oscuri’ e la nascita della polis nel secolo VIII a.C.

Un’opinione diffusa individua il germe di tale opposizione, in seno alla stessa monarchia palaziale micenea, nella divisione fra il sovrano del palazzo ‘centralizzato’ (il wanax, da cui poi l’omerico ánax, «re») e quei potentati locali, preposti a strutture amministrative periferiche, che furono probabilmente i basileîs (plurale di basiléus, altro termine omerico per il «re»). Omero, come sempre, riflette una realtà storicamente stratificata e perciò fortemente ibrida: non a caso Odisseo, nella sua lotta per la riconquista del regno, dovrà combattere – e infine venire a patti – con prìncipi e nobili che sembrano agire ormai con una forte indipendenza.

È un fatto però che alla sua nascita la polis rivela quasi ovunque una struttura aristocratica, e che, laddove la monarchia sopravvive (per esempio a Sparta), essa appare ampiamente ridimensionata e spesso ridotta a un fenomeno residuale, inquadrato – e perciò reinterpretato – all’interno di una struttura di potere marcatamente oligarchica.

Uno dei ‘manifesti’ del pensiero aristocratico è stato spesso indicato nel principio che Peleo detta a suo figlio Achille quando questi parte per la spedizione contro Troia: «sempre essere il migliore (aristéuein) e il primo fra tutti gli altri» (Iliade XI 784). È in realtà un assunto discutibile (il primato assoluto del singolo non pare facile a conciliarsi con l’egualitarismo aristocratico e con la sua fedeltà al principio dell’isonomía interna), ma certamente è in Omero che si fissano alcuni degli elementi più caratteristici dello stile di vita aristocratico e della sua autorappresentazione: la nobiltà dei natali (che specialmente con Teognide e Pindaro si preciserà in senso fortemente eugenetico); il culto del valore bellico e del suo diretto derivato, il valore atletico; l’esercizio di una téchne politica che si esplica in abilità oratoria e in saggezza decisionale; il possesso di una ricchezza che è innanzitutto ricchezza terriera (su questo punto l’aristocrazia si opporrà sempre, almeno a livello di principio, alla ricchezza monetaria tipica dei nuovi ceti medi o delle oligarchie commerciali) e in seconda istanza ricchezza simbolica, concretizzata in beni di lusso: dal cavallo (uno dei più stabili status symbol dell’aristocrazia) agli oggetti preziosi.

Tali valori si approfondiscono e si arricchiscono ulteriormente in séguito: l’aristocrazia si riterrà allora esclusiva depositaria di quella saggezza che si concretizza nell’etica tradizionale e di quella moderazione (sophrosúne) che viene negata tanto al dêmos (la cui descrizione più impietosa è nello Pseudo-Senofonte) quanto al tiranno o al monarca (su questo punto è saltuaria ma significativa l’alleanza ideologica con la democrazia); essa insisterà sulla propria prestanza tanto fisica (le competizioni atletiche saranno una delle sue principali attività, accanto alla caccia e ovviamente alla guerra), quanto morale e intellettuale (il simposio diventerà uno dei suoi istituti più caratteristici e uno dei principali centri di trasmissione del sapere aristocratico).

Posta dinanzi, fra i secoli VIII e VI a.C., a un nuovo assetto dell’economia politica e all’emersione di nuove classi affaristiche, e perciò minacciata nel suo predominio materiale e nel tradizionale monopolio della ricchezza, essa sa elaborare un nuovo concetto di nobiltà, destinato a durare nei secoli e a divenire un autentico stereotipo della morale occidentale: da una parte, essa rimarca il valore della nascita e della stirpe (la nobiltà del sangue), ma dall’altra l’intrinseco valore della moralità e dell’istruzione (la nobiltà dell’animo, che è indifferente, e anzi spesso si oppone, alla ricchezza materiale). Questa dissociazione ‘virtuale’ fra ricchezza e nobiltà è uno strumento ideologico di straordinaria potenza in mano all’aristocrazia (perciò suona alquanto cinica e impietosa la definizione che Simonide, secondo Aristotele, avrebbe dato dei nobili: «ricchi di antica data»).

Altri ideali non meno durevoli dell’aristocrazia (il culto del lusso, la bellezza esteriore, l’amore omosessuale) sono elaborati in età arcaica e consegnati, con alterne vicende, alle età successive. Fra Omero e il pensiero della tarda arcaicità si elabora anche quello che resterà il vocabolario fondamentale dell’aristocrazia: il nobile è designato preferibilmente con i termini di agathós, esthlós (entrambi destinati a significare in seguito, secondo il processo di generalizzazione a cui si è accennato e che è già attivo in Teognide, semplicemente «buono», «galantuomo», «uomo di valore»), béltistos (un sostanziale sinonimo di áristos), phérteros (che enfatizza i valori di superiorità agonale), spoudaîos (dominante in Aristotele) e soprattutto con il celebre kalòs kagathós (alla lettera, «bello e nobile»), a indicare l’unione di prestanza fisica e morale, esteriore e interiore (benché l’espressione, ad onta della sua fortuna scolastica, non sia diffusa quanto si crede).

In tutti i casi, siamo di fronte a un processo che, anche laddove l’aristocrazia tradizionale si vede costretta ad abbandonare il ruolo di esclusiva detentrice del potere politico ed economico, garantisce la lunga durata e l’universalizzazione del pensiero aristocratico nei suoi principi fondamentali. È questo processo di diffusione e astrazione in senso morale che dà luogo a una vera e propria ‘ideologia dominante’: una visione del mondo o un sistema di valori che finisce per essere condiviso da tutti i ceti sociali (non solo da quello che in origine ne ha elaborato i principi) e che diviene un equivalente, in apparenza neutro, di ‘cultura’.

[Federico Condello]