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Callimaco
(gr. Kallímachos, lat. Callimachus)
Cenni biografici
Figlio di Batto e proveniente da una famiglia che faceva risalire le sue origini all’omonimo fondatore della colonia greca di Cirene, Callimaco nacque nella città nordafricana in una data situabile fra il 320 e il 310 a.C. Sin da giovane, probabilmente, si trasferì nella capitale del regno tolemaico, Alessandria, alla cui periferia, secondo la sua stessa testimonianza, esercitò la povera professione di insegnante elementare. La fortuna di Callimaco non tardò però a risollevarsi, quando fu introdotto alla corte di Tolomeo II Filadelfo (285-247 a.C.): non conosciamo i dettagli della vicenda, né possiamo dire quale fosse l’incarico ricoperto dal poeta presso il sovrano e in particolare presso la Biblioteca del Museo fondato dallo stesso Filadelfo; certo egli non ne fu mai epistátes («sovrintendente» o bibliotecario in capo), come è ormai appurato sulla base di un papiro che elenca i primi sei epistátai della prestigiosa istituzione, da Zenodoto ad Aristarco. In ogni caso, alla produzione erudita del Museo Callimaco contribuisce da par suo in larga parte delle sue opere in prosa, mentre la sua attività di poeta, quando non costituisce un diretto riflesso delle polemiche letterarie e delle ricerche filologico-erudite interne al Museo, avviene sempre all’ombra della corte tolemaica, prima con il citato Filadelfo, poi con il successore Tolomeo III Euergete (247-221 a.C.). Molti versi enigmatici di Callimaco, uniti alle testimonianze della tradizione biografica antica, hanno indotto a ritenere che il poeta fosse al centro di inesauste polemiche con molti contemporanei, rivali in àmbito poetico (se non nella più concreta ‘scalata’ ai gradi della carriera cortigiana): il nome che più frequentemente ritorna, a questo proposito, è quello di Apollonio Rodio; ma su questo punto, ancora oggetto di discussione e di dibattito, ben poco di certo si può dire. La morte del poeta si data agli anni di poco successivi al 245 a.C.
Opere
Le notizie antiche, raccolte nell’enciclopedia bizantina Suda (X secolo d.C.), attribuiscono a Callimaco una produzione sterminata: ben 800 libri, cioè rotoli di papiro. Una parte consistente di tale corpus era senza dubbio costituita dagli scritti di carattere erudito: innanzitutto i Pínakes (le «Tavole»), la più famosa e consultata delle fatiche storico-letterarie di Callimaco, che in 120 libri raccoglievano i nomi e probabilmente un consistente numero di notizie bio-bibliografiche relative a «coloro che si sono distinti in ogni forma di cultura»; si trattava cioè di un vero e proprio ‘catalogo ragionato’ delle opere presenti nella Biblioteca di Alessandria, e ad esso attinsero in buona parte – specie dopo che una nuova versione corretta e aggiornata fu approntata da Aristarco – gli eruditi e i compilatori di storie letterarie nei secoli successivi. Ad oggi, dei Pínakes callimachei, non rimangono che 25 brevi frammenti.
Accanto ad essi vanno ricordate le Liste dei poeti drammatici (che con uguale intento storico-letterario risalivano probabilmente alle didaskalíai raccolte da Aristotele e dai suoi discepoli), la Lista delle glosse e degli scritti di Democrito (se così dobbiamo intendere il nome «Damocrito» riportato dai manoscritti) e il trattato Contro Prassifane, verosimilmente una confutazione delle ricostruzioni storico-letterarie e forse delle teorie poetologiche espresse dal filosofo peripatetico. Tali opere sono tutte perdute, così come non si possiedono che i titoli di altri scritti di carattere antiquario (per esempio Raccolta delle meraviglie terrestri, che fu una fonte preziosa per i posteriori trattati sui mirabilia [raccolte di notizie su esseri e fenomeni straordinari, meravigliosi]; Nomi dei mesi secondo i popoli e le città; Commentari relativi a disparate questioni storico-letterarie e religiose; Sui venti; Sui fiumi della terra; Sui costumi dei barbari; Sugli agoni; Sulle fondazioni e sui mutamenti di nome di isole e città).
Del Callimaco poeta possediamo, dalla tradizione manoscritta medievale, sei Inni conservati insieme agli Inni omerici (si tratta degli inni esametrici a Zeus, ad Apollo, ad Artemide, a Delo, a Demetra, e dell’inno in distici elegiaci I lavacri di Pallade), e 63 epigrammi, di cui 61 conservati all’interno dell’Antologia Palatina (di altri 10 epigrammi, di cui alcuni in metro non elegiaco, si conservano minuti frammenti di tradizione indiretta), nonché un certo numero di citazioni tratte da opere alla cui conoscenza ha apportato un contributo fondamentale la scoperta dei papiri. In particolare:
1) il poemetto Aitia («Origini»), in metro elegiaco e in quattro libri, dedicati a miti ‘fondativi’ di tradizioni rituali, costumi locali, curiosità onomastiche (e il gusto della poesia ‘eziologica’, dedicata cioè alla ricerca di cause e origini remote, vere o presunte, sarà tipico dell’ellenismo); del poemetto si possiedono circa 180 frammenti, fra cui alcuni molto estesi - per esempio il fr. 75 Pfeiffer (leggenda amorosa di Aconzio e Cidippe); il fr. 43 Pfeiffer dedicato alle città sicule; l’elegia che concludeva il quarto libro, la «Chioma di Berenice», dedicata alla moglie di Tolomeo Euergete, è stata tradotta in latino da Catullo e sopravvive, pur in stato assai lacunoso, nel fr. 110 Pfeiffer -; è nel celebre Prologo degli Aitia che Callimaco elabora nel modo più netto il proprio ‘credo’ poetico, contrapponendosi esplicitamente ai misteriosi «Telchìni» (nel mito, deformi demoni della metallurgia), qui ‘maschera’ letteraria di personaggi sulla cui identità interpreti antichi e moderni hanno a lungo disputato.
2) Giambi, 13 componimenti di estensione variabile e in metro a base giambica (giambo puro solo nei testi 8-10), che recuperano la tradizione satirica risalente a Ipponatte, sentito da Callimaco come ‘poeta dotto’ e perciò a lui affine: se ne conservano ca. 35 frammenti, di cui molto lunghi i frr. 191 e 193 Pfeiffer.
3) Ècale, poemetto in esametri dedicato significativamente, secondo lo stile dell’epillio alessandrino, a un episodio marginale del mito di Teseo, che sulla strada per Maratona ottiene la calorosa ospitalità della povera vecchietta che dà nome al componimento: se ne conservano 148 frammenti, di cui solo il fr. 260 Pfeiffer di una certa estensione.
Altri carmi sono sopravvissuti solamente in uno stato di estrema frammentarietà: la Festa notturna, l’Apoteosi di Arsinoe (dedicato alla sorella e sposa di Tolomeo Filadelfo), Branco (pastore, leggendario fondatore del santuario di Apollo a Dìdima), Galatea, Ibis (poemetto elegiaco imitato da Ovidio), Elegia per una vittoria Nemea, Vittoria di Sosibio.
Pressoché solo i titoli si conservano di componimenti come l’Arrivo di Io, la Semele, la Fondazione di Argo, il Glauco, l’Arcadia. Le fonti antiche gli attribuivano inoltre diverse opere drammatiche: tragedie, commedie e drammi satireschi.
Poetica
Universalmente considerato un ‘caposcuola’ della poesia alessandrina, Callimaco eleva a sistema una tendenza già avviata in alcuni settori della produzione arcaica e classica (la lirica corale, la commedia, ma in parte già Omero e alcuni lirici monodici): quella di unire strettamente poesia e dichiarazioni di poetica. Così, da testi chiave come il Prologo degli Aitia o gli epigrammi dedicati a questioni di poetica, oltre che dalla stessa prassi callimachea, è agevole dedurre i principi di un’estetica letteraria che costituì per secoli il modello dell’arte preziosa e finissima tipica dell’ellenismo (compreso quello latino): che la poesia debba essere creazione lieve, delicata, breve nell’estensione (oligóstichos) ma estremamente rifinita, sono concetti che Callimaco ribadisce attraverso immagini e affermazioni assai note («tuonare non spetta a me, ma a Zeus» [fr. 1, 20 Pfeiffer]; il raglio dell’asino contro l’armonioso canto della cicala; le grandi vie battute dai carri contro le preferibili vie solitarie ed anguste; la poesia ‘sottile’ contro le pingui vittime sacrificali; l’arte che non si misura «con la pertica persiana», cioè in base alla lunghezza, bensì in base alla sua perfezione, ecc.).
Di qui l’avversione al «poema ciclico» (cioè all’epica dei logori imitatori di Omero) e al «grande libro, [che è] grande malanno» (dove sin troppo spesso si è colta una pointe all’indirizzo di Apollonio Rodio e del suo epos), e per contraccolpo la straordinaria cura metrica e lessicale di componimenti brevi e arguti, se non spesso concettosi, con forti riflessi sia sul piano delle scelte tematiche (il mito ridotto ai suoi aspetti minimali o minimalistici, l’attenzione a dettagli eziologici di raffinatissima erudizione), sia su quello dei generi letterari e dei rispettivi metri tradizionali (con originali e ricercati incroci di forme e contaminazioni di stili).
Un simile culto della forma è stato spesso paragonato, con discutibile anacronismo, all’«arte assoluta» (l’art pour l’art) dell’Ottocento europeo (ma anche alla poesia colta, ricercatissima e programmaticamente disimpegnata del Barocco): in realtà siamo dinanzi a una ‘nuova poesia’ che nasce dalla crisi ideologica che investe il ruolo degli intellettuali calati nella realtà ellenistica, e che si apparenta intimamente alla ‘nuova filologia’ (da cui trae materiali ‘grezzi’ da rielaborare poeticamente) praticata in quegli stessi ambienti da cui vennero, con Callimaco, altri illustri rappresentanti dell’alessandrinismo poetico. Sicché ‘nuova poesia’ e ‘nuova filologia’ sono fenomeni fra cui è vano cercare una priorità, tanto ne è stretta l’affinità: ed entrambi costituiscono una risposta alla nuova situazione sociale originata dalla fine della polis, una situazione in cui la poesia si fa sempre più elitaria e autoreferenziale (le numerose allusioni che costellano il testo di Callimaco non potevano essere decrittate che da eruditi suoi pari o addirittura suoi ‘colleghi’).
Ricerca e crisi, sperimentalismo e ripiegamento ideologico, culto dell’originalità artistica e radicale alienazione dalla realtà economico-sociale delle società ellenistiche, sono, in questo senso, fenomeni del tutto solidali: il che spiega anche lo straordinario interesse che la poesia ellenistica, e in particolare la poetica callimachea, hanno suscitato – per un ambiguo effetto di ‘riflessione’ e riconoscimento – nella critica novecentesca.
[Federico Condello]
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