|
Il futurismo e anche l’impressionismo dei vociani e il D’Annunzio del Notturno favoriscono uno stile nominale, con scarsa punteggiatura e prevalenza di paratassi. Durante il fascismo, anche per motivi di prudenza, prevale una prosa d’arte, spesso di tipo memoriale, lontana dalle urgenze della realtà politico-sociale che privilegia una lingua raffinata e rarefatta. Il contatto con la letteratura inglese e soprattutto americana, attraverso un intenso lavoro di traduzione (in cui si sono cimentati anche Pavese e Vittorini), doveva aprire la strada nell’immediato secondo dopoguerra alla prosa neorealista di Pavese, Vittorini, Fenoglio, Levi, Pratolini, che procedette parallela al cinema di Visconti, Rossellini, De Sica. Le due esperienze si influenzarono a vicenda e rinnovarono la lingua rendendola più disinvolta, anche per la forte presenza di dialoghi. Era una lingua, in sostanza, in cui le differenze tra scritto e parlato diminuivano, e che accoglieva espressioni dialettali. La poesia, salvo qualche eccezione (ad esempio Pavese), preferisce uno stile alto. Montale però, che pure ricorre spesso a voci dotte come scialbatura («imbiancatura») o asolo («alito di vento»), accetta, in nome di uno sperimentalismo che si rifà a Dante, anche termini del linguaggio quotidiano, come pozzanghere, fischi, tosse; e nel dopoguerra, in linea del resto con una tendenza al realismo diffusa nella poesia italiana dopo il ventennio, mostra di prediligere una lingua bassa che usa anche in senso parodico espressioni tipiche della civiltà dei consumi.
|