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Il fascismo, appena giunto al potere, indicò tra gli obiettivi prioritari quello di riorganizzare le istituzioni che dovevano formare le nuove generazioni e la classe dirigente in linea con le direttive del partito; in questo modo intendeva influire su tutti gli aspetti della vita del cittadino e favorire al tempo stesso il consenso. Per prima cosa fu varata la riforma della scuola (1923) ad opera del filosofo e allora Ministro dell’Educazione Nazionale Giovanni Gentile. Si trattava di una riforma che privilegiava le discipline umanistiche a scapito di quelle scientifiche. Due anni dopo fu inaugurato l’Istituto nazionale fascista di cultura, che avrebbe dovuto costituire il raccordo tra l’alta cultura e le istituzioni intermedie, cioè le scuole, i giornali, le case editrici. Era naturale, quindi, che il regime si impegnasse ad attuare anche una precisa politica linguistica. La lingua costituiva, infatti, il supporto del nazionalismo e dell’esaltazione dell’italianità che ne era la base ideologica. Così si spiega l’appoggio dato alla ricerca scientifica che ricevette impulso anche dall’istituzione, alla fine degli anni Trenta, della prima cattedra di storia della lingua italiana affidata a Bruno Migliorini. Per perseguire questo obiettivo Mussolini cercò in primo luogo di difendere l’italiano contro i dialetti; fu così ben presto abbandonato il progetto di Gentile che, partendo come l’Ascoli dalla constatazione dell’ignoranza della lingua da parte delle masse popolari, aveva proposto in un primo tempo di usare i dialetti nella scuola elementare. L’opposizione ai dialetti non era una novità – basti pensare al progetto postunitario di diffondere ‘dall’alto’ il fiorentino del Manzoni – e poteva apparire una scelta in nome della modernità. A questo pensava Giovan Battista Agnolotti, quando nel 1942, su «Primato», la rivista fondata da Bottai, allora Ministro dell’Educazione Nazionale, difendeva una lingua comprensibile in ogni regione, libera da arcaismi e da dialettismi, aperta ai forestierismi. Viceversa, il dialetto andava spesso di pari passo con atteggiamenti provinciali, di chiusura nei confronti di ogni termine straniero. L’esaltazione dell’italianità ebbe come effetto, oltre alla lotta contro i dialetti, la repressione delle giuste rivendicazioni dei cittadini di lingua francese in Val d’Aosta, di lingua tedesca nell’Alto Adige, di lingua slovena a Trieste e in Istria. Si favorirono addirittura massicce emigrazioni di impiegati dello Stato che parlavano italiano in queste regioni e le minoranze furono spesso costrette a italianizzare il proprio nome per evitare le varie forme di discriminazione a cui venivano sottoposte.
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