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Nel Trecento si nota la tendenza a un superamento del frammentismo linguistico che è favorito dall’espandersi in ambito regionale dei vari organismi politici del Centro-Nord. Questo fenomeno coinvolge anche il regno di Napoli soprattutto grazie all’illuminata politica culturale di Roberto d’Angiò (†1343); mentre è più debole a Roma a causa dell’assenza del Papa che risiede ad Avignone e nella Sicilia conquistata dagli Aragonesi (1302), che cominciano la loro penetrazione anche in Sardegna. Contribuisce a creare una situazione di maggiore omogeneità linguistica anche l’accresciuto dinamismo della vita economica, politica e culturale. Spesso, infatti, a diffondere i vocaboli sono i mercanti, i podestà, i giudici, i maestri, i soldati di ventura, gli uomini di corte nei loro frequenti spostamenti. Questa sorta di progressiva koinè linguistica si attua con il contributo di dialetti vicini e del latino; più difficile è stabilire se si comincia a considerare come punto di riferimento il toscano. Sta di fatto che l’eccellenza letteraria raggiunta dalla lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio si impone sempre di più nel corso del secolo. C’è da notare che l’importanza di Petrarca e Boccaccio per le sorti future dell’italiano è dovuta anche al fatto che, a conclusione della discussione sulla lingua, nel Cinquecento, questi due scrittori saranno proposti, sulla base delle indicazioni del Bembo, come due modelli per la poesia e per la prosa e tali rimarranno fino al Romanticismo. Petrarca, la cui poesia (Canzoniere e Trionfi) si muove in un mondo ideale sottratto alla storia, compie sulla lingua un’azione sistematica di selezione e di decantazione, con un impoverimento del lessico, che mira a una equilibrata uniformità, assestandosi sulla ripetizione di alcune formule perfette. Poche sono quindi le parole da lui coniate (tra queste possiamo ricordare disacerbare nel significato di «mitigare»), molti invece i latinismi che usiamo ora comunemente, come disprezzo (al posto di desprezo di Iacopone), incauto, aprico («esposto all’aria»). Particolarmente incisiva è stata l’influenza sulla tradizione poetica successiva attraverso espressioni figurate che diventano luoghi comuni, come foco e fiamme («amore»), sole e tesoro («donna amata»), rai («occhi»), liquido cristallo («acqua»). Quanto a Boccaccio, nel Decamerone egli usa un «fiorentino volgare» per rappresentare la realtà variegata della società medievale, specialmente quella dei mercanti e delle donne, i nuovi soggetti sociali a cui intende indirizzare in primo luogo le sue novelle. L’aspirazione a uno stile elevato, un’esigenza che insieme al realismo è già presente fin dalle prime opere, si manifesta soprattutto nella struttura ampia del periodo, che riproduce il modello ciceroniano e che impronterà la prosa italiana per secoli. A Boccaccio si devono molte voci di uso corrente, tra cui possiamo citare assiderare, rigido («austero»), senile, svenire, zitella («fanciulla»), testicolo (la ghiandola sessuale maschile). Prima Dante e in seguito Petrarca e Boccaccio, i cui capolavori sono diffusi attraverso un numero straordinario di codici, diventano oggetto di un vero e proprio culto da parte soprattutto dei letterati veneti. Dice ad esempio il padovano Antonio da Tempo: Lingua Tusca magis apta est ad literam vel literaturam («la lingua toscana è più adatta alla letteratura»). Siamo quindi già sulla strada che porterà alla scelta del Bembo.
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