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Alle soglie del Trecento il fiorentino ha già acquisito un ruolo preminente; ma solo grazie a Dante la sua affermazione diventò decisiva per le sorti della lingua italiana. E Dante può essere considerato, a ragione, il padre della nostra lingua essenzialmente per due motivi. Il primo motivo è la sua netta presa di posizione a favore della supremazia dell’idioma della sua città nei confronti del latino e dei vari volgari italiani. Questa convinzione è espressa nel De vulgari eloquentia («La lingua volgare», 1308), un saggio tutto consacrato alla riflessione sul volgare. Qui l’Alighieri, passati in rassegna i 14 dialetti italiani da lui individuati, afferma che tutti sono manchevoli per qualche verso (non fanno eccezione neanche i dialetti toscani), ma che contengono in potenza la lingua letteraria ideale che si può ottenere estrapolando il meglio da tutti. Questa lingua ha quattro caratteristiche: è «illustre», cioè dà luce agli scritti e agli autori che la usano; è «cardinale», cioè è come il cardine intorno a cui ruotano tutti i volgari; è «aulica» e «curiale», perché è adatta alla reggia e alla corte che è il consesso dei consiglieri del re. In Italia, però, il territorio è diviso in comuni e feudi: chi svolgerà la funzione del re e della reggia? Gli scrittori, sostiene Dante. Un’affermazione su cui dobbiamo soffermarci un po’. Dante, acuto osservatore della realtà, ha subito individuato il ruolo imprescindibile della letteratura per la lingua italiana e quindi coglie la necessità di usare per lo stile sublime, elevato (che a lui interessa particolarmente in questa sede), quella lingua che, nata dai poeti siciliani, si è venuta raffinando nel tempo per perfezionarsi con gli stilnovisti (in particolare con lui stesso). Di fatto quindi, al di là della polemica funzionale a sostegno della necessità di una lingua raffinata e ripulita delle forme più popolari, egli consacra la preminenza del fiorentino che è la sua lingua. L’altro motivo per cui Dante è il padre dell’italiano è che scrivendo La Divina Commedia, egli crea una grande lingua, dando una prova superba, e mai più raggiunta in seguito, delle possibilità della lingua fiorentina e italiana. Prima di lui, infatti, c’era solo l’indiscussa preponderanza del latino, l’uso sporadico del francese e del provenzale, i tentativi di vari volgari di innalzarsi al di sopra della rozzezza del parlato. Nelle opere giovanili Dante fa propria la tradizione della poesia cortese a lui precedente, imprimendo in essa i segni potenti della sua arte, mentre nella Commedia, a differenza di quello che aveva sostenuto nel De vulgari eloquentia, usa tutti i registri della lingua, dal plebeo al più elevato. Così troviamo mamma e babbo, definiti in precedenza termini puerili e quindi da evitare, femmina e corpo, che aveva condannato perché poco eleganti. Inoltre, accanto al fiorentino contemporaneo, Dante accoglie anche termini caduti in disuso, voci toscane, alcune di altri dialetti italiani e molte latine e francesi. È difficile stabilire quali sono le parole che sono state da lui coniate e quelle che sono state solo accolte. È certo comunque che molte si sono affermate grazie alla sua autorità. La Commedia appare come una fucina di sperimentazione linguistica, necessaria per esprimere una realtà che spazia dalla vita di tutti i giorni ai molteplici sentimenti, dalla scienza alla filosofia. La sua creatività si vede in neologismi come adimare («abbassare», da ad + imum, «il basso, il fondo»), appulcrare («aggiungere per abbellimento», da a(d) + pulcher, «bello»), ingigliare («ornare con gigli», da in + giglio), inurbarsi («trasferirsi dalla campagna in città», da in + urbs, «città»), mentre burlare nel senso di ruzzolare è mutuato dal milanese borlare. Queste parole non hanno avuto seguito e mantengono solo un valore storico-letterario; hanno avuto invece fortuna i termini che si riferiscono in Dante alla ‘struttura’ dell’Oltretomba, come bolgia (ciascuno dei dieci settori dell’ottavo cerchio dell’Inferno) e contrappasso (ciò che è patito a riscontro della colpa), parola tratta da San Tommaso, anch’essa entrata nel linguaggio comune, o grifagno («minaccioso»), tetragono («saldo nei propri propositi»). Così, locuzioni come natio loco («patria»), morta gora («palude dell’inferno», da cui «situazione stagnante»), ben dell’intelletto (Dio) nell’espressione «perdere il ben dell’intelletto» (cioè perdere la testa), essere tra color che son sospesi («essere in una situazione di incertezza»), far tremar le vene e i polsi («far paura per la sua difficoltà»), attestano il radicamento del poema nell’immaginario degli Italiani. Fanno parte della lingua moderna tutta una serie di parole molto comuni, come lume, tromba, incredibile, e altre più colorite e di uso meno frequente, che rispondono per lo più all’esigenza espressionistica di rappresentare il mondo stravolto dell’inferno e che si trovano spesso in rima, come trangugiare, maciullare, zavorra, zucca (nel senso di testa).
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