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Tutto questo, comunque, determinò il riaccendersi del dibattito sulla lingua, in un momento cruciale per l’Italia, quando dovevano essere gettate le basi per la creazione di uno Stato moderno. I dibattiti sulla lingua, del resto, come pensava Gramsci, non sono mai discussioni accademiche di dotti, ma sono il sintomo di grandi mutamenti della società. I primi fermenti si manifestarono all’interno stesso della commissione. Il gruppo dei fiorentini, tradendo il Manzoni, riproponeva come modello la lingua degli scrittori. Si tentarono anche dei compromessi: il Tommaseo, ad esempio, pensava al toscano parlato nelle campagne perché più conservativo e quindi più vicino alla lingua degli autori antichi. Diatribe del genere avevano comunque fatto il loro tempo. Ormai il problema linguistico andava affrontato alla luce della moderna indagine storica e comparativistica. Chi si fece portavoce di queste istanze fu Graziadio Isaia Ascoli, che intervenne autorevolmente nella polemica nel 1873, quando il Manzoni ormai era morto, nel Proemio del primo numero dell’«Archivio glottologico italiano», la rivista specialistica da lui fondata. Partendo dal rapporto tra lingua e società e dalla realtà secolare dei dialetti, Ascoli dichiarava senza mezzi termini che la soluzione manzoniana era inadeguata oltre che impraticabile. L’Italia aveva bisogno non di una lingua colloquiale, provinciale, che rischiava di essere ridicola, com’era il fiorentino, che aveva dato già prove poco convincenti nei numerosi epigoni del Manzoni, ma di una lingua duttile e agile, adatta anche a trattare argomenti culturali. La diffusione di questa lingua, però, non si poteva ottenere con disposizioni ministeriali e neppure dall’oggi al domani, ma solo grazie all’istruzione, all’ammodernamento delle istituzioni culturali e al progresso scientifico. Bisognava tener conto della realtà, evitando fughe in avanti; pertanto Ascoli consigliava di partire dal dialetto nell’insegnamento elementare e di usare l’italiano sovraregionale che pur esisteva. Non si capiva in nome di che cosa si dovesse dire anello, come dicevano i fiorentini, invece di ditale, come dicevano tutti gli altri, o novo (che veniva ostentato nel titolo del vocabolario di Giorgini-Broglio ispirato ai criteri manzoniani, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze) invece di nuovo, che è l’esito normale in Italia della o breve latina in sillaba aperta. Il modello manzoniano fu bollato anche dal toscano Carducci che lo attaccò, come «manzonismo degli stenterelli», in nome di una lingua, soprattutto nella poesia, classicamente atteggiata. Tuttavia ebbe fortuna anche perché, se era difficile diffonderlo come lingua d’uso tra tutti gli Italiani, era relativamente facile imitarlo nella scrittura. In particolare la lingua del Manzoni ebbe molto successo, soprattutto tra i maestri elementari, grazie all’opera di De Amicis L’idioma gentile (1905), che presentava delle letture in buona lingua toscana, insegnando a evitare lo stile troppo aulico. Comunque nella seconda parte dell’Ottocento il motivo principale della scarsa conoscenza dell’italiano tra la popolazione è l’analfabetismo. Basteranno poche cifre per avere un’idea della situazione. Nel 1861 l’80% della popolazione non sapeva leggere né scrivere; dieci anni dopo il 60% dei bambini in età scolare si sottraeva all’obbligo scolastico. I maestri elementari, d’altra parte, soprattutto nelle campagne, erano poco colti e usavano con i loro alunni generalmente il dialetto. Non c’è da stupirsi se su una popolazione di 25 milioni di abitanti, a parte i toscani, i romani e gli alfabetizzati, coloro che erano in grado di parlare l’italiano non erano più di 700.000. Se le cose migliorarono, sia pure lentamente, fu grazie al servizio militare e alle migrazioni interne dei lavoratori e degli impiegati statali. Ma anche l’opera lirica, l’unica forma di acculturazione per chi non era in grado di leggere i libri, risultò determinante nella diffusione della lingua italiana.
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