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In questi anni la questione della lingua registra un nuovo capitolo grazie al Purismo, un movimento promosso dal sacerdote veronese Antonio Cesari. Cesari pubblicò una nuova edizione del Vocabolario della Crusca che comprendeva solo scrittori del Trecento, anche di poca o minima importanza, ma si trattava di una posizione di retroguardia senza futuro. Pochi anni dopo (1816), la polemica tra classicisti e romantici mostrò lo stretto legame tra lingua e politica. I classicisti erano i paladini di una lingua della tradizione che aveva la sua base nelle letterature classiche, ma che comunque prendeva a modello gli autori italiani fino al Settecento, con aperture al moderno per quanto riguardava la distinzione tra scritto e parlato e la necessità, sostenuta da Vincenzo Monti, di introdurre parole nuove soprattutto per la scienza e la tecnica. A volte, questo modello presenta anche una forte valenza patriottica (ad esempio con Pietro Giordani). I romantici (come il Di Breme), sostenitori del nuovo modo di far poesia che si era affermato in Europa, si rifacevano, invece, al Cesarotti soprattutto per l’idea che la lingua è una realtà in continua evoluzione. Sottolineavano i rapporti lingua-nazione e davano diritto di cittadinanza anche ai dialetti che, come mostrava il Porta con il milanese, erano paragonabili alla lingua. Leopardi fece osservazioni acute sul concetto di «scarto» della lingua poetica rispetto alla lingua standard (l’effetto di distanziamento, cioè, della lingua poetica rispetto al parlato, distanziamento che è funzione della diversità di registri stilistici) e dichiarò la sua preferenza per l’italiano, idioma naturalmente poetico, perché più antico, rispetto al francese, troppo evoluto e adatto per questo a esprimere solo concetti scientifici. Nell’ambito del Romanticismo, doveva maturare anche la presa di posizione del Manzoni: la necessità pratica di trovare una lingua idonea per il romanzo che stava scrivendo lo spinse, infatti, ad occuparsi del problema teorico. Il Fermo e Lucia (1821-23, prima stesura dei futuri Promessi sposi), redatto in una lingua fatta di toscano e di milanese con latinismi e francesismi, non lo soddisfa; Manzoni prepara allora la stesura successiva (I promessi sposi del 1827) sulla base del toscano letterario riproposto dal vocabolario del Cesari. Ancora scontento, dopo un soggiorno a Firenze, arriva alla conclusione che l’unica lingua per una prosa moderna sia il fiorentino parlato dalle persone colte e, uniformandosi ad esso, compie una revisione non solo linguistica, ma anche stilistica per la nuova edizione del romanzo che sarà pronta solo nel 1840-42. La decisione è frutto di un’approfondita riflessione che ritroviamo in opere mai completate né pubblicate nelle quali lo scrittore giustifica la sua scelta col fatto che fiorentina è stata la lingua della letteratura, unico elemento di coesione degli Italiani attraverso i secoli. Al centro della meditazione di Manzoni c’è l’idea romantica, e quindi anticlassicistica, che la lingua è regolata dall’uso e che essa è la base dell’identità nazionale di un popolo. I promessi sposi, che ebbero uno straordinario successo anche a livello popolare, si proponeva quindi, pochi anni prima delle guerre d’indipendenza, come l’opera in cui tutti gli Italiani potevano riconoscersi. Questo è il motivo per cui dopo l’Unità, nel 1868, il governo pensò che il problema di trovare una lingua unitaria, vitale per amalgamare gli Italiani secondo una prospettiva romantica e centralistica, potesse trovare una soluzione proprio grazie al Manzoni. Lo scrittore fu nominato presidente di una commissione paritetica di milanesi e fiorentini, che doveva operare per diffondere la lingua parlata a Firenze, e si fece promotore di alcune proposte come mandare nelle varie regioni insegnanti elementari toscani o preparare vocabolari della lingua fiorentina. Tuttavia, pur essendo Firenze capitale d’Italia, il progetto manzoniano si rivelò di difficile attuazione.
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