La norma non c'è più
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Travajé o fatighé?
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I dialetti, nonostante tutto, sono vitali, anzi stanno attraversando un momento di rilancio. Di fatto gli Italiani sono passati da una prevalente diglossia, cioè dall’uso della lingua per lo scritto e del dialetto per l’orale, a un prevalente bilinguismo: nella vita quotidiana si esprimono sia in dialetto che in italiano, con una preferenza per quest’ultimo. Una trasformazione avvenuta grazie all’istruzione, allo sviluppo economico e all’urbanizzazione.

Il rapporto tra lingua e dialetto resta comunque complesso e segnato da scambi reciproci. Gli italianismi entrano sempre di più nei dialetti, in primo luogo attraverso i borghesi colti. Il fenomeno riguarda sia i termini dell’italiano popolare, sia quelli tecnici che designano i nuovi concetti relativi al cinema, alla radio, alla televisione, al computer. Spesso i cambiamenti partono dalle città. Guardiamo ad esempio cosa è successo nel Biellese. Negli anni Sessanta si diffondono, prima a Biella e poi nel territorio circostante, i termini nonno, sorella, zia e zio, parole italiane usate dai torinesi. Il motivo di questa ‘esportazione’ è da ricercarsi nell’industrializzazione della zona e nella presenza di una borghesia che tende a imitare la lingua parlata a Torino. Ma, sempre da Torino, provengono anche dialettismi che sostituiscono forme esistenti più simili all’italiano, come sente al posto di sentir («sentire») o doerme per drumir («dormire»). Si tratta, dunque, di una continua osmosi tra italiano e dialetto, ormai con netta prevalenza del primo sul secondo. D’altra parte, che le voci dialettali siano un potente mezzo di rinnovamento per la lingua l’abbiamo visto nel corso di tutta la storia dell’italiano.

Ci sono poi le varietà regionali, fortemente influenzate dal dialetto, che cercano di adeguarsi all’italiano standard, considerato come il modello. Tra i dialetti, uno status particolare hanno il toscano, che ha continuato a svilupparsi da quando, nel Cinquecento, l’italiano letterario era stato ‘congelato’ nella lingua di Petrarca e di Boccaccio, e il romanesco, che si è modellato sul toscano nella prima metà del XVI secolo. Si tratta di due dialetti che sono cresciuti in modo autonomo, senza guardare all’italiano standard, proprio perché erano ad esso particolarmente vicini, mentre le altre lingue regionali hanno compiuto il cammino con molta più lentezza e soprattutto hanno dovuto attendere l’Unità d’Italia. Bisogna anche dire che, di fatto, l’italiano standard è usato soltanto – e prevalentemente per iscritto – dalle persone più colte. Naturalmente questo non vale per la letteratura, che può richiedere, ad esempio in narrazioni a sfondo autobiografico, proprio la lingua regionale, o, a seconda delle esigenze espressive dello scrittore, addirittura il dialetto o il gergo.

Le differenze delle lingue regionali rispetto all’italiano standard riguardano in modo particolare la fonetica e l’intonazione, il che si spiega anche col fatto che l’italiano è stato per secoli solo una lingua scritta. Ad esempio chi è stato in Sardegna si è potuto accorgere che la popolazione locale dà l’intonazione interrogativa fin dall’inizio della frase, mentre questo non avviene in italiano. Sempre in Sardegna si dice «hai visto a Luigi» (uso dell’oggetto preposizionale) invece di «hai visto Luigi» (semplice complemento oggetto) per influsso dello spagnolo. Lo stesso avviene anche a Napoli e nelle regioni del Centro-Sud.

 
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