La norma non c'è più
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La norma non c’è più

 

Una novità della seconda metà del Novecento è il legame che si stabilisce tra il dibattito sulla lingua e la didattica. L’educazione linguistica è sentita come una priorità, se si vuole arrivare a costruire una società veramente democratica fatta di cittadini politicamente e civilmente consapevoli. A guidare in questa direzione, al di là della lezione gramsciana, fu don Milani con la celebre Lettera a una professoressa (1967), in cui si affermava che la lingua era uno strumento di dominio dei ricchi sui poveri e che i poveri dovevano appropriarsene per diventare coscienti dei loro diritti.

Il metodo di insegnamento del prete di Barbiana, che metteva in discussione ogni norma linguistica, ebbe un’influenza enorme anche sulle «Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica» (1975) elaborate dal GISCEL, un gruppo di studio sorto per la didattica dell’italiano. Si tratta di un documento molto significativo perché sintetizza le posizioni più avanzate su questo argomento. Non a caso, il GISCEL poneva al centro della pedagogia l’educazione linguistica, e, quanto ai modi con cui doveva essere insegnata, opponeva alla didattica tradizionale, incentrata sulla grammatica e sulla norma, lo sviluppo armonico delle capacità espressive dell’alunno, da attuarsi soprattutto attraverso l’oralità, compreso l’uso del dialetto, a scapito della lingua scritta.

Poco dopo, nel 1976, «Il Contemporaneo» (supplemento di «Rinascita») faceva un bilancio della situazione. Tullio De Mauro poteva affermare con soddisfazione che il numero di coloro che parlavano l’italiano era molto cresciuto, chiaro segno della vittoria delle classi subalterne che dal possesso della lingua erano sempre state escluse.

Questa impostazione del problema, però, non fu senza conseguenze negative. Se si pensa, inoltre, all’influenza negativa dei mass media e al fatto che spesso gli insegnanti stessi rinunciarono a insegnare la grammatica, considerata una forma di repressione, in nome di una malintesa creatività degli allievi, non ci stupiamo se anche gli studenti universitari usavano una lingua povera e approssimativa e avevano problemi con l’ortografia.

Così, alla metà degli anni Ottanta, nel corso di un dibattito promosso dalla rivista «Sigma», Gian Luigi Beccaria si mostrava piuttosto pessimista e vedeva con preoccupazione il pericolo di una lingua semplificata, depauperata e imbarbarita dai tecnicismi diffusi dai media, in poche parole una «lingua selvaggia» che era difficile imbrigliare con delle regole. Di positivo c’era però che ormai il 90% della popolazione la parlava.