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Arriva la lingua della scienza
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Ma il Seicento è anche il secolo
che vede l’affermarsi della cosmologia copernicana e la fondazione
della fisica moderna ad opera di Galileo. Fedele alla razionalità
toscana (nella famosa polemica aveva sostenuto la superiorità dell’Ariosto
sul Tasso), egli crea una prosa scientifica chiara, essenziale, consequenziale.
Dopo il Sidereus nuncius («Notizia delle stelle»,
1610), infatti, Galileo decide di usare l’italiano per i suoi scritti
maggiori nell’intento di avere un più diretto contatto con
le persone colte anche se non specialiste. Si tratta di una scelta audace,
come dimostra le reazione negativa di Keplero, per il quale era più
importante una circolazione europea degli scritti che solo il latino poteva
assicurare. Per i nuovi termini tecnici, anziché ricorrere al latino
e al greco, Galilei si serve di parole usuali, adibendole stabilmente
a una nozione specifica. Questo criterio è ancora oggi seguito
dai fisici, mentre i medici continuano ad attingere alle lingue classiche.
Così si diffondono macchie solari (le aree opache del
disco solare), candore (luce lunare), pendolo («che
pende», da cui, poi, «corpo che oscilla intorno a un asse
fisso»), resistenza (= «azione del resistere»,
e quindi forza che si oppone al moto di un punto o di un corpo).
Ma, a parte Galileo, la scienza continua
a coniare i termini attingendo alle lingue classiche. Abbiamo tutta una
serie di grecismi. Il cannocchiale si chiama anche telescopio;
lo strumento per misurare la temperatura è il termometro;
nasce l’ornitologia, la scienza che studia gli uccelli.
Non si contano i latinismi nella medicina, che comincia a studiare in
modo scientifico il corpo umano, grazie alla dissezione dei cadaveri,
un metodo di studio ormai comunemente praticato. In alcuni casi si tratta
solo di forme latine preferite ad altre già in uso: quindi anatomia
sostituisce notomia (contro il parere della Crusca), emorroidi
prende il posto di moroide, e chirurgo quello di cerusico.
Poi ci sono le nuove voci, tra cui si possono citare papilla,
patologia, pleura, bubbone (una realtà
molto comune data la presenza sempre incombente della peste). Un altro
settore che si serve del latino è ovviamente il diritto; e qui
troviamo condominio e consulente, che esprimono concetti
molto moderni, e aggressione e grassatore (brigante
di strada), due termini che danno conto di un’epoca di violenze
e soprusi. Certi latinismi sono mediati da altre lingue, come assonante
(detto di rima imperfetta), che viene a noi attraverso lo spagnolo.
Data la situazione politica, è
naturale che gli iberismi siano molto numerosi. Alcuni riguardano la vita
sociale, come brio, etichetta, posata; altri
la vita militare, come recluta e nostromo. L’influenza
politica francese, che si affianca nel corso del secolo a quella spagnola,
è fonte di alcune parole tipiche della vita di corte, come lacchè
(valletto in livrea) e gabinetto (piccolo ambiente in cui
il sovrano riceve i consiglieri). Ma dalla Francia arriva anche un gruppo
consistente di parole riguardanti l’arredamento e l’abbigliamento:
tra di esse, la stessa voce moda (1648), che è la foggia
corrente del vestire o dell’acconciarsi. Troviamo inoltre il canapè
(un divano imbottito) e il giustacuore (un tipo di giubba
maschile). Parrucca nel Quattrocento voleva dire lunga capigliatura,
ma nel 1615 il Marino ci informa che «a Parigi tengono un’altra
testa posticcia con capelli contraffatti, e si chiama parrucca».
Importanti i termini militari, come reggimento, plotone,
tappa (luogo riservato per una fermata), rango (schiera,
riga). Iniziano anche a diffondersi locuzioni, che si sono ben radicate
nella lingua italiana, come fare il diavolo a quattro (suscitare
un pandemonio, per lo più per far valere le proprie ragioni) e
mettere sul tappeto (portare in discussione un problema).
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