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Òrfeo
(gr. Orphéus, lat. Orpheus)
Caratteristiche e genealogia
Mitico cantore trace, che i greci ponevano fra i capostipiti della loro tradizione poetica e musicale, accanto a Lino – che secondo alcune testimonianze sarebbe stato il maestro di Orfeo, secondo altre suo fratello – e comunque prima di Omero e di Esiodo, che talvolta erano addirittura inseriti fra i suoi discendenti. Unanimi sono le fonti antiche nell’attribuirgli per madre una delle nove Muse, per lo più Callìope. Il padre è talvolta indicato nel re di Tracia Eagro, talvolta invece nel dio Apollo (cf. Apollodoro, Biblioteca I 3, 2). I tratti di eccezionalità artistica a lui attribuiti si riassumono nel diffuso motivo leggendario che vuole Orfeo capace di incantare con la sua musica non solo gli uomini, ma anche le fiere, o addirittura gli elementi del regno vegetale (Euripide, Baccanti, 562-564) e della natura inanimata (Apollonio Rodio, Argonautiche I 25-27).
Vicende mitiche
Due sono i racconti cui Orfeo è tradizionalmente legato: il viaggio degli Argonauti alla volta della Colchide, per recuperare il vello d’oro, e la catabasi infernale (discesa agli inferi) cui lo costrinse la morte della moglie Euridìce. Alla spedizione guidata da Giasone Orfeo diede un contributo fondamentale, vincendo nel canto le Sirene e impedendo così che l’equipaggio cedesse alle lusinghe del loro canto (Apollonio Rodio, Argonautiche IV 891-911). La discesa nell’Ade è invece un racconto al cui tragico finale è rimasta legata, attraverso i secoli, la fama di Orfeo. Il cantore aveva preso in moglie Euridice, figlia di Nèreo e di Dòride. Un giorno la giovane donna fu morsa da un serpente – mentre tentava di fuggire Aristèo intenzionato a usarle violenza, secondo la versione del mito raccolta da Virgilio nel IV libro delle Georgiche – e così trovò la morte. Amandola intensamente ed essendo incapace di trovare consolazione, Orfeo decise di scendere agli inferi per convincere le divinità sotterranee a restituirgli, contro ogni legge di natura, la sposa perduta. Al suo ingresso nell’Ade, le più tenebrose e feroci creature che secondo il mito popolavano il mondo sotterraneo furono incantate e commosse dal suo canto: non seppero resistergli né le Erinni, né il cane Cèrbero, né Persèfone né Ade stesso. Così a Euridice fu concesso il ritorno alla luce, al solo patto che durante la risalita Orfeo, che avrebbe dovuto precedere la moglie, non si voltasse mai indietro per gettarle uno sguardo. Incapace di resistere, o accecato per volere del destino, Orfeo si voltò quando ormai il viaggio di ritorno stava per essere compiuto. Allora Euridice svanì nel nulla e a Orfeo fu vietato di rivedere ancora la propria sposa. Per lunghi mesi il cantore trascorse il suo tempo a piangere e a cantare dolcemente la moglie perduta: alla sua musica si ammansivano le bestie feroci, si sommuovevano le querce. Finché, avendo irritato le Baccanti di Tracia con l’ostinazione del suo lutto e con il rifiuto di cedere nuovamente all’amore e ai piaceri della vita, Orfeo fu ucciso e smembrato: i brani del suo corpo furono sparsi dalle Baccanti per i campi e la sua testa fu gettata nel fiume Ebro. Secondo tradizioni posteriori, il capo di Orfeo sarebbe infine approdato sulle coste di Lesbo, garantendo all’isola – patria fra gli altri di Saffo e di Alceo – una secolare fortuna nell’àmbito del canto e della musica.
Orfeo e il cosiddetto “orfismo”
Il nome di Orfeo fu ben presto legato a un movimento di carattere filosofico-religioso assai discusso tanto per la sua origine, quanto per le sue dottrine e per la sua stessa natura di tradizione unitaria e omogenea: è il cosiddetto “orfismo”, che già Erodoto (Storie II 81), e con lui molti studiosi moderni, mette in relazione da una parte con la religione dionisiaca (lo smembramento di Orfeo ricorda da vicino la storia mitica dello stesso Dioniso), dall’altra con la setta dei pitagorici e con il cosiddetto pitagorismo, complesso di dottrine filosofiche e misteriche che si richiamano al filosofo samio Pitagora (attivo a Crotone, in Magna Grecia, a partire dal 530 a.C. ca.).
Sotto il nome di Orfeo sono giunti sino a noi testi di varia epoca e di diverso contenuto: ottantasette Inni (preghiere agli dèi) foggiati sul modello degli Inni omerici, ma ispirati a una religiosità ben diversa dalla religiosità classica tradizionale; un poema epico dal titolo Argonautiche orfiche; un poema dedicato alle virtù delle pietre e intitolato Lithiká («Versi sulle pietre»); infine, un corpus di oltre 360 frammenti (fra brani in versi, brani in prosa, testimonianze dottrinarie) provenienti da diverse fonti. Mentre è universalmente riconosciuto che gli Inni, le Argonautiche orfiche e i Lithiká devono essere attribuiti ad epoca relativamente tarda (nessuno di essi è certamente anteriore al II secolo d.C.), tra i frammenti orfici si celano senza dubbio testi o dottrine risalenti almeno al VI-V secolo a.C. Essi veicolano un sapere assai composito, che va da teorie teogoniche e cosmogoniche eterodosse (nella tradizione orfica ricoprono un ruolo fondamentale divinità come Chrónos, il «Tempo», Phánes, dio ermafrodita, Eros, l’Amore, e infine Dioniso [Zagréus], oggetto di sacrificio rituale - smembramento e cottura - da parte dei Titani, con successiva ‘resurrezione’) a un nutrito insieme di rivelazioni relative all’oltretomba e ai destini delle anime dopo la morte, sino all’elaborazione di pratiche tabuistiche e dietetiche miranti alla purificazione dell’anima dai suoi legami con il corpo e con la vita terrena. In questo nucleo di dottrine escatologiche (la credenza nella vita ultraterrena e nell’immortalità dell’anima) e di prescrizioni catartiche (fra cui spicca l’astensione dalla carne e dal sacrificio animale – uno dei capisaldi della religione antica – nonché una rigida pratica di castità o di temperanza sessuale) gli studiosi sono concordi nell’individuare uno dei tratti originari dell’orfismo.
È soprattutto dal V secolo a.C. che il fenomeno dovette assumere una marcata visibilità sociale, quando il messaggio dell’orfismo – se mai si trattò di un messaggio unitario – venne affidato soprattutto alla predicazione di apostoli itineranti, non di rado accusati di ciarlataneria (durissimo è il giudizio che ne dà Platone nella Repubblica, 364b-365a, descrivendoli come truffatori particolarmente assidui nelle case degli ateniesi più facoltosi). Testimonianze relative a tali predicazioni si trovano quindi in Erodoto, in Euripide (è tratteggiato con le caratteristiche del tipico orfico l’Ippolito dell’omonima tragedia: cf. vv. 952-954) e nel comico Aristofane. In ogni caso, anche se alcuni aspetti dell’orfismo possono essere considerati sicuri e relativamente stabili (in particolare la fede nell’immortalità dell’anima e nella sua eventuale reincarnazione, con tutte le pratiche rituali e iniziatiche legate a tali credenze), gli studiosi sono oggi molto prudenti nel considerare il movimento come una ‘setta’ organizzata e compiutamente stratificata: si ha piuttosto la sensazione di trovarsi di fronte a un fenomeno complesso, frastagliato, estremamente differenziato sia in senso sociologico, sia in senso dottrinario.
Quanto ai numerosi testi attribuiti a Orfeo, è certo che tale uso sia da mettere in relazione con la diffusa pratica della pseudoepigrafia (falsa attribuzione di testi a personaggi illustri) che fra VI e V secolo a.C. interessò pressoché tutti i cantori e i sapienti della tradizione più antica, ivi comprese figure ritenute spesso ‘storiche’ come Omero ed Esiodo. A tempi recenti risale la scoperta delle cosiddette ‘laminette orfiche’: un corpus di ca. 20 lamine d’oro recanti iscrizioni, ritrovate in Italia meridionale, a Creta e in Tessaglia, databili al IV-III secolo a.C. (la più antica e celebre fra esse viene da Hippònion [Vibo Valentia] e si data al 400 a.C. ca.) e contenenti per lo più istruzioni relative al viaggio oltretombale delle anime iniziate alla dottrina di Orfeo: notevole è il ruolo in esse giocato dalla dea Mnemosyne («Memoria»), l’unica in grado di garantire gli iniziati contro l’oblio che li condannerebbe a un’eterna e umiliante metempsicosi, e dal mito del dio Dioniso-Zagréus, dalla cui uccisione per mano dei Titani deriverebbe – recando con sé le tracce di quella colpa originaria – la stirpe dei mortali. Gli studi più recenti tendono a mettere in relazione tali dottrine con le sette pitagoriche attive nell’Italia meridionale e manifestamente contigue a forme rituali e sapienziali caratteristiche del cosiddetto ‘orfismo’.
[Federico Condello]
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