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Felicità
Definizione
L’it. «felice»/«felicità», pur provenendo dal lat. felix/felicitas, connesso a una radice fe- che indica ‘abbondanza’ e ‘ricchezza’, ha perso progressivamente i suoi connotati materiali («fortuna», «successo», «prosperità») per assumere più astratti connotati emozionali, e costituirsi addirittura in marcata e consolatoria antitesi rispetto ai valori materiali. Questo processo pare già in atto nella Grecia classica, dove tuttavia il vocabolario della felicità non perde mai del tutto i propri legami con l’originaria base materiale. I termini più interessanti da questo punto di vista appaiono ólbos ed eudaimonía.
Ólbos
Il significato di ólbos e derivati si organizza, in Omero, attorno a ben precisi valori: il possesso di una solida e cospicua ricchezza (per lo più espressa in capi di bestiame o in beni di prestigio) e la buona nomea che circonda l’individuo e il suo oîkos, concepiti come realtà strettamente dipendenti. Così ólbios («felice», ma nel senso precisato sopra) è innanzitutto l’aristocratico, che può dar mostra della sua fortuna in termini vistosamente concreti. Un valore solo affine ha mákar con i suo derivati: anch’esso reso per lo più come «felice», indica innanzitutto la serena vita delle divinità olimpiche (è una formula cristallizzata mákares theoì aièn eóntes, «gli dei felici e sempre viventi»). In questo caso la felicità completa appare attributo antonomastico ed esclusivo della divinità, in opposizione alla vita mortale che, come spiega già Achille a Priamo in un brano divenuto presto celebre (Iliade XXIV 527 ss.), è una successione di momenti felici e momenti infelici, perché «due vasi sono collocati sulla soglia di Zeus, / con i doni che egli dà: uno di cattivi, l’altro di buoni». In ogni caso mákar può essere applicato anche a re e ad aristocratici, e specialmente nell’Odissea i confini semantici fra ólbios e mákar tendono a farsi sottili e indistinguibili.
Eudaimonía
Come altri analoghi composti (per es. olbiodáimon), l’eudaimonía indica innanzitutto la felicità come frutto della benevolenza divina (ciò è espresso dal teonimo generico dáimon, che nulla ha a che fare con il posteriore ‘demone’ e che indica senza precisazioni il dio). Il termine è sconosciuto ad Omero: compare soltanto in uno degli Inni omerici, 11, 5, di datazione incerta, e nel finale delle Opere di Esiodo, ritenuto spesso non autentico; ma è frequente nei lirici: Saffo definisce l’eudaimonía come congiunzione di ‘ricchezza’ e ‘valore individuale’ (fr. 148, 2 Voigt), e il concetto pare diffuso tanto in Teognide quanto in Pindaro, non perdendo mai del tutto l’idea di prosperità connessa a quella di favore divino.
Evoluzioni del concetto
È nel corso del V secolo a.C. che sembra potersi cogliere in maniera consistente il passaggio da una ‘felicità’ concepita innanzitutto (conformemente ai canoni dell’aristocrazia arcaica) come prosperità e fortuna, a una ‘felicità’ in cui l’aspetto propriamente economico passa poco per volta in secondo piano. Un’evoluzione di questo tipo è stata colta però già in Solone (fr. 24 West), a cui dire «sono ricchi allo stesso modo coloro che hanno molto argento / e oro e distese di terra ricca di grano / e cavalli e muli, e coloro che possono solo questo: / i piaceri del ventre e del corpo, / e quelli che vengono da un fanciullo o da una donna, quando di ciò arriva / il momento». Va però precisato che a parlare è un aristocratico e che questa apparente svalutazione della ricchezza da una parte è da connettere con la crisi economica della nobiltà arcaica (che elaborò valori alternativi per opporsi ai ‘nuovi ricchi’ non nobili), dall’altra esprime un edonismo per nulla parco o moderato, che tradisce la matrice nobiliare del motivo. È semmai il Solone ritratto da Erodoto (Storie I 30-31) in un celebre dialogo con il re Creso a esemplificare la nuova concezione della felicità. Al re di Lidia che gli chiede, dopo avergli mostrato le sue ricchezze, chi ritenesse l’uomo «più felice di tutti» (pánton… olbiótaton), il saggio ateniese risponde deludendo le aspettative del re e citando i nomi di alcuni personaggi affatto ordinari e sconosciuti: il proprio concittadino Tello, che vide crescere sani i propri figli e morì in battaglia, e gli argivi Cleobi e Bitone, che dopo aver compiuto un onorevole servigio per Era, ottennero dalla dea «quello che per l’uomo è la sorte migliore»: cioè un’immediata e indolore morte, sopraggiunta nel sonno.
Il paradosso erodoteo si connette sia al diffuso pessimismo greco (una celebre massima – poeticamente espressa da Teognide e da Sofocle nell’Edipo re – sentenzia appunto che «per l’uomo la cosa migliore è non nascere, oppure, una volta nato, morire al più presto»), sia al culto della moderazione e della continenza che a partire dal VI-V secolo a.C. diviene un tema dominante della lirica e della filosofia: l’eccesso di felicità (il che equivale il più delle volte a eccesso di fortuna e/o di ricchezza) è esposto al rischio di un’infelicità uguale e contraria, che gli dèi o la sorte inviano a compenso dei successi ottenuti.
A partire dal V secolo a.C., e poi soprattutto con le filosofie post-socratiche ed ellenistiche, l’idea di una felicità che sia innanzitutto possesso interiore, svincolato dalle circostanze esterne (materiali) e perciò stabile e duraturo, diventerà uno dei temi-chiave della riflessione greca: riproducendo così quell’ideale di autarchia e autonomia del soggetto che, sul piano individuale, dipende però ancora da una antico (e assai durevole) ideale economico.
[Federico Condello]
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