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Come reagisce Firenze alla questione della lingua? Negli anni Venti, quando escono le opere di Bembo, Castiglione e Trissino, la città non entra nel dibattito, assorbita com’è dalla crisi politica. Non ha molta risonanza neanche il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, rimasto inedito fino al 1730, in cui Machiavelli, contro Bembo e soprattutto Trissino, sosteneva il primato naturale del fiorentino sugli altri volgari italiani. Un primato che non era dovuto agli scrittori, tra i quali, peraltro, bisognava annoverare anche quelli recenti come il Poliziano e quelli popolareggianti come il Pulci e il Burchiello. La peculiarità del fiorentino troverà poi uno strenuo difensore nel Giambullari, uno dei fondatori dell’Accademia degli Umidi per lo studio della lingua toscana, che nel 1546 arriverà a sostenere una teoria priva di qualsiasi fondamento scientifico: la diretta derivazione del toscano dall’etrusco. Il latino, così, era solo la lingua degli invasori. Nella seconda metà del secolo, però, il dibattito sulla lingua si trasferì a Firenze, dove Benedetto Varchi, studioso di Dante e Petrarca, tentò una mediazione, auspice il granduca Cosimo I, tra i sostenitori del Bembo e quelli del fiorentino moderno, vivo e popolare. Nell’Ercolano (1560-65) egli arriva a questa conclusione: se sono fondamentali gli scrittori, è importante anche la lingua parlata per cui, a differenza di quello che sosteneva Bembo, essere fiorentini è un vantaggio e soggiornare in riva all’Arno è essenziale, come dirà poi il Manzoni, per imparare la lingua. Questo compromesso poteva aprire la strada a una soluzione equilibrata della questione. Ma non fu così. Lionardo Salviati, infatti, poco dopo, si faceva promotore di una concezione puristica della lingua, correggendo il canone bembiano alla luce del concetto di popolarità di ascendenza varchiana (che escludeva però ogni riferimento all’uso vivo). La conseguenza fu che gli autori da imitare erano tutti i fiorentini del Trecento, anche i minori e i minimi. Queste idee vennero esposte negli Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone (1584-86), di cui aveva allestito un’edizione purgata, in linea col moralismo controriformistico. Successivamente, per metterle in pratica, Salviati organizzò in modo scientifico l’Accademia della Crusca, sorta nel 1583 per vagliare la perfetta lingua fiorentina, come si fa con la farina, separandola appunto dalla crusca. Lo scopo principale divenne l’allestimento di un vocabolario. Alla fine del Cinquecento, grazie agli sforzi congiunti del granduca e dei filologi, Firenze si era quindi riappropriata della sua lingua e questo poteva essere motivo di grande prestigio. Ma l’Accademia della Crusca si muoveva sotto il segno di una chiusura nei confronti della modernità che comportava la condanna di qualunque manifestazione letteraria che non rientrasse nei canoni stabiliti. Non a caso uno dei primi bersagli dell’Accademia fu la Gerusalemme liberata, che rinnegava l’equilibrio classico e il petrarchismo linguistico dell’Ariosto, sostituendovi una locuzione artificiosa, tipicamente manieristica, e un lessico che voleva essere non toscano ma italiano.
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