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Ospite/Ospitalità
L’istituto dell’ospitalità rappresenta uno dei più importanti dispositivi relazionali della Grecia arcaica, nonché uno dei più duraturi lasciti dell’aristocrazia ‘omerica’ al mondo delle poleis e dei rapporti interstatali che esse stabilirono fra loro.
Il termine greco per indicare l’ospite è xénos (xeînos ne è variante fonetica comune in Omero): lo stesso che designa lo straniero, con un’ambiguità semantica non estranea al latino (dove si alterna la coppia hostis/hospes) né ad altre lingue indoeuropee.
Secondo l’uso testimoniato a più riprese dai poemi omerici, lo straniero che si presenti alla corte di un eroe è destinato a ricevere un trattamento regolato da un preciso protocollo cerimoniale, la cui importanza è suggerita dal fatto stesso che l’ospite sia posto sotto la diretta protezione di Zeus (cui appartiene l’epiclèsi di Xenios, «protettore degli ospiti»). Non appena si presenti al padrone di casa, l’ospite ha il diritto di essere accolto, curato dalle serve secondo le sue esigenze (in genere lavato e cosparso di unguenti) e generosamente rifocillato. Solo a questo punto – con un obbligo di corresponsione che non sembra meno cogente – egli è tenuto a rivelare il proprio nome, la propria stirpe e la propria patria a colui che lo ha accolto, ed eventualmente a fornire notizie sul proprio viaggio e su tutto ciò che riguardi il mondo esterno all’oîkos in cui si trova: in un sistema ‘a case separate’ qual è quello omerico, dove ogni corte tende a formare un microcosmo autonomo e autosufficiente, l’ospite è anche un medium informativo di notevole rilevanza; egli, in quanto viaggiatore, può raccogliere voci e notizie delle terre attraversate (ne è un esempio il racconto di Odisseo al re dei Feaci, Alcinoo; ma anche i numerosi viandanti che hanno attraversato Itaca in assenza di Odisseo, recando a Penelope e a Eumeo ogni sorta di novella).
Trattenutosi senza limiti di tempo presso la casa che lo ospita, il viaggiatore può riprendere il suo cammino: ma ciò non avverrà senza l’ultimo degli obblighi previsti dalle leggi dell’ospitalità, ovvero un cospicuo donativo che l’ospitante versa all’ospite e che quest’ultimo non può in alcun modo rifiutare. Tale donativo consiste generalmente in beni di lusso (vesti, tripodi, gioielli, armi, suppellettili preziose, ma anche cavalli o vino pregiato) e l’obbligo di accettazione che è fatto all’ospite – e che in nessun modo può subire deroghe – aiuta a inquadrare l’ospitalità nell’insieme delle pratiche legate al ‘dono’ arcaico: scambio fra due soggetti sociali che intendono innanzitutto dar prova del proprio status economico, il dono fa guadagnare in prestigio ciò che fa perdere sotto il profilo strettamente materiale. Perciò il ricevente non può in alcun modo rifiutare il dono, ciò che significherebbe rifiutarsi di riconoscere lo status dell’altro: egli può solo rilanciare con un dono di portata pari o preferibilmente superiore.
Alla regola non sfugge il rapporto di ospitalità: nutrito, curato, colmato di doni, l’ospite è tenuto a restituire il servizio qualora le parti si invertano e l’ospitante si venga a trovare, in veste di viaggiatore, nella casa dell’ospite. Tanta è l’importanza riconosciuta a tale obbligo di ricambio, che l’ospitalità è addirittura ereditaria: il troiano Glauco e il greco Diomede, incontratisi sul campo di battaglia come nemici, si riconoscono per ospiti perché tali erano stati i loro padri: la relazione ereditata è forte al punto da superare la momentanea appartenenza dei due eroi a eserciti contrapposti; e invece di un duello ha luogo un cavalleresco scambio di doni (Iliade VI 119 ss.).
Ma che gli eroi omerici non fossero sensibili soltanto all’aspetto relazionale dell’ospitalità, bensì anche al ragguardevole profitto che i donativi (detti xeneîa) potevano garantire, lo dimostrano gli insistenti richiami di Omero a eroi che prolungano i loro viaggi per accumulare immense quantità di beni preziosi (per esempio Odissea IV 78 ss., XIX 268 ss.). È in ogni caso evidente che l’istituto dell’ospitalità contribuiva a creare un fitto reticolo di relazioni internazionali, capaci di assicurare all’oîkos un superamento della sua dimensione locale e del suo strutturale isolamento.
In questo senso l’ospitalità, indifferente a specificazioni etniche o a schieramenti politici, appare uno dei capisaldi dell’internazionalismo che fu tipico dell’aristocrazia arcaica. Praticata senza interruzioni dai circoli nobiliari (ne resta più di una traccia nella poesia simposiale), l’ospitalità venne ereditata dalla polis nella forma della ‘prossenia’, uno dei più fondamentali strumenti ‘diplomatici’ atti a tutelare i diritti dello straniero.
[Federico Condello]
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