Scilla
(gr. Skúlle; lat. Scylla)

Tremendo mostro marino che abitava in una grotta posta sulla rupe in prossimità dell’attuale Reggio Calabria, nato da Forco e dalla ninfa Cratèide; è opinione di alcuni che il nome altro non sia che un epiteto, la «Forte», per indicare una divinità che non si vuole menzionare (cfr. per esempio, Ècate). Secondo gli antichi Scilla latrava come un cane, aveva dodici piedi invisibili e sei lunghissimi colli con sei teste e, in ogni bocca, tre file di denti fitti e serrati. Si cibava di pesci, ma, quando una nave si avvicinava troppo alla sua caverna si avventava anche sugli uomini; così successe a Odisseo, che perse sei compagni, secondo quanto gli aveva profetizzato Circe (Odissea XII 245 ss.).

È di solito menzionata insieme a Cariddi, altro mostro invisibile che abitava sulla rupe opposta, sulla costa siciliana. Cariddi passava il tempo sotto un albero di fico e tre volte al giorno ingurgitava le acque dello stretto per poi rivomitarle in mare. Si tratta evidentemente di personificazioni delle selvagge correnti che si scatenavano in prossimità delle due rupi – situate nello stretto di Messina, tra l’Italia peninsulare e la Sicilia – rendendo difficile l’attraversamento ai naviganti.

Tradizioni successive a Omero trattano variamente le vicende relative ai due mostri. Si narrava per esempio che Scilla avesse rubato alcuni dei buoi di Gerìone e che per punizione fosse stata uccisa da Eracle. Il padre Forco però, dando fuoco al suo cadavere e facendolo bollire, l’avrebbe riportata in vita; Scilla sarebbe divenuta allora una grande dea, superiore alla stessa regina degli Inferi, Persèfone. Secondo un’altra versione Scilla sarebbe stata, in origine, una splendida fanciulla che Circe (gelosa del dio marino Glauco) o Anfitrìte (gelosa di Poseidone) o addirittura Poseidone stesso (cui sarebbe stato preferito Glauco) avrebbero trasformato in mostro.

Scilla e Cariddi compaiono anche, con le stesse caratteristiche, nel mondo latino. È interessante che in àmbito etrusco Scilla venga presentata come divinità alata in connessione con il mondo infernale, ma anche con i luoghi aperti e gli spazi infiniti, e non è chiaro se l’epiteto Tursenís (Euripide, Medea 1342) sia da intendere come «Etrusca» o – più probabilmente – come «Tirrena», perché l’antro del mostro si apriva sul Mar Tirreno. Virgilio oltre all’iconografia tradizionale (in Eneide III il passaggio di Enea è modellato su quello di Odisseo, Odissea XII) mostra di conoscere anche «Scille biformi», che situa nel mondo infero (Eneide VI 286).

Esiste inoltre un’altra Scilla, figlia del re Niso di Mègara, nota per essersi innamorata di Minosse, re di Creta, mentre questi assediava Megara. Secondo la leggenda Scilla, per favorire l’amato, strappò dal capo del padre il capello porporino da cui dipendeva la sua vita; Minosse, vinta la guerra, fece però legare Scilla alla prora della sua nave e ne causò così la morte (Apollodoro, Biblioteca III 15, 8). Un’altra tradizione (Ovidio, Metamorfosi VIII 1-151) vuole invece che Minosse, sconvolto e disgustato dal gesto di Scilla, dopo la vittoria desse ordine di salpare lasciando la giovane a Megara, e che costei, furibonda, si buttasse in mare per inseguire la nave. Suo padre Niso, già mutato in aquila marina, si sarebbe slanciato per afferrarla e straziarla, ma Scilla si sarebbe ritrovata in quell’attimo trasformata in un uccello piumato, detto Ciris (la cui etimologia viene ricondotta al gr. keírein, «recidere», in relazione al capello strappato). Ciris è il titolo di un poemetto incentrato appunto sulle vicende mitiche di questa Scilla, compreso nell’Appendix Vergiliana (cfr. Virgilio).

[Elena Esposito]