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Schiavo/Servo
Diffusione della schiavitù
Secondo una prospettiva diffusa a partire dalla sociologia marxiana, la società greco-romana risponderebbe tipologicamente al modello della struttura economica a base schiavistica. Oggi, la maggioranza degli studiosi concorda sul fatto che tale definizione sia fondamentalmente corretta, non tanto perché gli schiavi costituissero l’elemento predominante dell’economia (un ruolo enorme, in Grecia quanto a Roma, giocavano i piccoli proprietari liberi), bensì perché essi rappresentavano l’assoluta maggioranza della forza-lavoro sottoposta a sfruttamento: un ruolo minimo, almeno nella Grecia classica e nella Roma repubblicana e imperiale, giocavano infatti i lavoratori liberi salariati (forza-lavoro predominante, invece, nel capitalismo moderno e contemporaneo).
È legittimo affermare che solo pochissime società, nel corso della storia umana, hanno raggiunto una così ampia e capillare diffusione del lavoro schiavile e della relativa compravendita di schiavi (gli studiosi non arrivano a contarne più di tre, oltre ad Atene e Roma: le Indie occidentali e il Brasile in epoca coloniale, gli Stati Uniti del Sud sino alla guerra di secessione). E così, agli antichisti che hanno spesso celebrato il «miracolo greco» come straordinario esempio di sviluppo culturale, capace di raggiungere nel corso di pochi secoli conquiste intellettuali millenarie, è stato più volte ricordato, dagli storici dell’economia, che tale ‘miracolo’ era fondato in parte consistente sulla base schiavile che rese possibile lo sviluppo della polis e dei suoi istituti.
Forme della schiavitù
Gli storici della schiavitù antica distinguono essenzialmente due forme di proprietà servile come caratteristiche dell’economia greca e romana: la cosiddetta chattel-slavery, la «schiavitù-merce», diffusa particolarmente nell’Atene classica e nella Roma repubblicana e imperiale; e la schiavitù di tipo ilotico, che prende il nome dagli ‘iloti’ di Sparta e che costituì complessivamente un fenomeno marginale nel contesto delle società classiche (agli ‘iloti’ spartani corrispondevano, a quanto pare, i ‘penesti’ della Tessaglia).
Mentre l’istituto della schiavitù-merce prevede che lo schiavo costituisca una proprietà alienabile e commerciabile al pari di qualsiasi altro bene, la schiavitù di tipo ilotico si configura come l’asservimento di uno strato di popolazione marcato in senso etnico (gli ‘iloti’ spartani erano costituiti in gran parte da abitanti del Peloponneso preesistenti all’invasione dorica) e perciò normalmente sottratta alla circolazione economica che caratterizzava invece la chattel-slavery. È stato inoltre osservato che il greco possiede un considerevole numero di termini per designare lo schiavo: dagli omerici dmôs e doûlos (quest’ultimo sarà il termine più diffuso), andrápodon (che connota lo schiavo come «prigioniero» di guerra), oikéus/oikétes (che indica evidentemente lo schiavo domestico), sôma (genericamente «corpo» o «persona», assai diffuso in età ellenistica).
Tali termini non corrispondono ad altrettanti tipi servili, bensì focalizzano diversi aspetti di una realtà fondamentalmente unitaria e riportabile all’istituto della schiavitù-merce.
Ruolo degli schiavi
Uno dei temi più dibattuti dalla sociologia del mondo antico può essere riassunto in questo interrogativo: gli schiavi greci e romani costituirono una ‘classe sociale’ nello stesso senso in cui la costituiscono i lavoratori salariati di età moderna? Gli studiosi che alla domanda danno una risposta negativa evidenziano aspetti senza dubbio importanti della schiavitù antica: la quasi assoluta assenza di ‘rivolte’ servili che possano far pensare agli schiavi come a una classe coinvolta nella conseguente ‘lotta di classe’ (il caso di Spartaco costituisce un’eccezione isolata; le rivolte degli iloti spartani furono sempre rivolte fondate su una base etnica più che economica); l’assenza di una compiuta ‘coscienza di classe’ unitaria in un ceto – quello schiavile – che si trovava per lo più diviso dalle diverse provenienze etniche e dalle diverse funzioni sociali; la generale prevalenza, nel mondo antico, di una gerarchia sociale fondata sul concetto di status (concetto giuridico) più che su quello di classe (concetto economico): un cittadino libero, ma nullatenente, si trovava comunque su un piano superiore rispetto a uno schiavo o a un ex schiavo privo di diritti politici, ma impegnato eventualmente in attività economiche redditizie (in altre parole, il mondo antico conoscerebbe una generale prevalenza della politica sull’economia); infine, l’ampio spettro di funzioni cui gli schiavi potevano essere destinati: una cosa è lo schiavo omerico, spesso perfettamente integrato nella realtà di un oîkos principesco (si pensi a Euriclea o a Eumeo nella casa di Odisseo), un’altra è lo schiavo agricolo impiegato in pressoché tutte le piccole proprietà ateniesi (Esiodo dà per scontato che ogni agricoltore possieda almeno uno schiavo), un’altra ancora lo schiavo che in Atene o nella Roma tardo-repubblicana e imperiale poteva essere utilizzato anche per mansioni di alta responsabilità.
Gli studiosi, che invece rispondono affermativamente all’interrogativo, insistono sulla definizione puramente ‘astratta’, cioè rigorosamente economica, di ‘classe sociale’ (da questo punto di vista, la maggiore o minore coscienza di classe da parte degli schiavi risulterebbe del tutto secondaria).
Alcuni dati obiettivi meritano comunque di essere sottolineati: insieme alla già citata varietà delle funzioni servili (si pensi al ruolo che gli ex-schiavi, cioè i ‘liberti’, giocarono nell’economia, nella finanza e nell’amministrazione dell’impero romano); la stretta e costante connessione fra schiavi e guerra (che fu sempre il principale mezzo di rifornimento della forza-lavoro, al punto che la fine dell’espansionismo militare, nella Roma post-traianea, causò un autentico collasso delle strutture economiche tradizionali); il sintomatico silenzio delle fonti sulla realtà quotidiana della vita servile (una delle più radicali e radicate censure della letteratura antica: un’eccezione costituisce il libro VI dei Deipnosofisti di Ateneo [II-III d.C.]); la nascita, proprio in Grecia, di una teoria della ‘schiavitù per natura’ (elaborata fra i primi da Aristotele) che avrebbe goduto di grande fortuna ai tempi del primo colonialismo europeo (ma anche teorie che proclamavano l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, come se ne ebbero in alcuni filoni della sofistica, nello stoicismo, nel primo cristianesimo, vennero facilmente a patti con la realtà della schiavitù, predicando al massimo ‘clemenza’ e ‘comprensione’ nei confronti dei servi).
Vale la pena inoltre rettificare uno stereotipo che spesso tende a edulcorare la realtà dello sfruttamento schiavile in età classica: se è vero che gli schiavi erano talvolta perfettamente integrati nelle case dei padroni (al punto che essi vennero considerati parte fondamentale del concetto di famiglia), è errato desumerne che la loro condizione dovesse essere complessivamente rosea; come si è osservato più volte, uno dei tratti caratteristici dello schiavo come personaggio della commedia è il suo costante, atavico – e probabilmente realistico – terrore dei maltrattamenti fisici da parte del padrone.
[Federico Condello]
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