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L’Ottocento
La vita
periodici più importanti della cultura italiana, che
riunisce intellettuali di fede liberale. Nell’inverno
tra il 1827 e il 1828 soggiorna a
Pisa
, dove la dol-
cezza del clima (che giova molto alla sua salute) e
l’affetto degli amici favoriscono il ritorno alla poe-
sia. Con
Il risorgimento
e
A Silvia
si apre la stagio-
ne dei cosiddetti «grandi idilli», che continua an-
che quando le necessità economiche e la morte del
fratello Luigi lo costringono a fare ritorno a
Reca-
nati
. Qui, oppresso dalle sofferenze fisiche e mo-
rali, trascorre «sedici mesi di notte orribile», du-
rante i quali però compone alcuni dei suoi canti
più noti:
Le ricordanze
,
La quiete dopo la tempesta
,
Il sabato del villaggio
e il
Canto notturno di un pasto-
re errante dell’Asia
.
Il periodo fiorentino
Nell’aprile del 1830 Le-
opardi decide di accettare l’invito degli amici fio-
rentini, che gli offrono un assegno mensile per un
anno in cambio di collaborazioni critico-letterarie.
Egli lascia così il paese natale, che non rivedrà mai
più. A Firenze si apre una nuova fase della sua vita,
ricca di stimoli intellettuali e più aperta al dibat-
Johann Ender, Donna allo scrittoio, 1820.
La parola alla critica
Pietro Citati, Leopardi, bambino felice
Nella recente monografia dedicata a Leopardi, Pietro Citati sfata un mito che da sempre ha caratterizza-
to l’idea vulgata sul carattere e lo stato d’animo del poeta: al principio della sua vita, Giacomo Leopar-
di era felice.
Nei ricordi dei fratelli, specialmente di Carlo, Giacomo ci appare in un’altra condizione: gioia, furia, «allegrez-
za pazza», al punto che se non si fosse contenuto avrebbe saltato, gettando seggiole in aria, fino a farsi male
«per allegria». «Quando» prorompeva «faremo qualcosa di grande?» Amava le battaglie eroiche a imitazione di
quelle omeriche, o delle lotte civili a Roma repubblicana. Affrontava i fratelli con il bastone: costringeva Car-
lo a fargli da cavallo, lo legava con una cordicella, lo conduceva con una briglia, e lo spingeva con una frusta.
Carlo e Paolina erano gli sconfitti o le vittime o i littori
1
o gli schiavi: Giacomo il trionfatore, che si faceva tra-
scinare su una carriola, dove abitualmente venivano portati i vasi degli aranci e dei limoni. [...] Come i bambi-
ni di natura viva e di spirito superiore, parlava delle cose proprie con un candore estremo, credendosi certis-
simo che chi ascoltava le amasse e curasse quanto lui le amava e curava. Rivelava i segreti: le cose che avrebbe
voluto tener nascoste, quasi gli fosse assolutamente impossibile celarle. Come era veloce la sua immaginazione,
come erano molteplici le cose che gli si affollavano nella mente, in modo vivace e confuso. Era felice: l’infanzia
era «quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva». Spe-
cie nel periodo tra la fine dell’infanzia e l’inizio della giovinezza godette una felicità intensissima o, per meglio
dire, tutte le forme della felicità – quella effimera, superficiale, momentanea, e quella che gli occupava le pro-
fondità del cuore; e la credeva vera, importante, possibilissima, anzi destinata all’uomo, posseduta dagli altri».
Qualcuno – forse il padre – gli rappresentava la vita come male, sciagura, odio. Lui, invece, sognava che la sua
vita sarebbe stata un’eccezione: felicità, piacere, virtù, entusiasmo. In uno slancio febbrile dell’io, pensava che
la felicità sognata per sé fosse anche quella degli altri, di tutti gli altri esseri umani.
P. Citati,
Leopardi
, Milano, Mondadori, 2010
1.
littori:
nell’antica Roma gli ufficiali incaricati di scortare le autorità.
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