In questo crogiolo di culti si attestarono alcune divinità latine arcaiche destinate a permane-
re nella futura storia della religione romana: si possono ricordare i
Lari
, i
Penati
e i
Mani
, ri-
spettivamente dèi della casa, della famiglia e dei morti, accanto alla dea del focolare
Vesta
e a
Giano
, il dio che regolava gli ‘inizi’ e i ‘passaggi’ dell’entrata e dell’uscita e pertanto era raffi-
gurato bifronte.
Tra III e II secolo a.C., poi, molte divinità furono sottoposte alla cosiddetta
interpretatio Ro-
mana
, un procedimento che consisteva nell’
assimilare divinità romane a quelle greche
con
prerogative analoghe: Giove era l’equivalente del greco Zeus, Minerva fu assimilata a Pallade
Atena, Giunone a Era, Venere ad Afrodite, Vulcano a Efesto, Mercurio a Ermete ecc.; Marte,
già divinità agricola, poi trasformato in dio della guerra dagli antichi romani che erano un po-
polo di agricoltori-soldati, fu identificato con Ares.
L’antica triade capitolina, che aveva avuto origine etrusca e comprendeva originariamente Gio-
ve, Marte e Quirino, mantenne il suo culto nel tempio a tre celle sul Campidoglio, ma passò
a comprendere
Giove
,
Giunone
e
Minerva
.
Nel 293, in occasione di una pestilenza fu importato da Epidauro, in Argolide, il culto del dio
guaritore
Esculapio
(o Asclepio); nel 216, dopo la sconfitta di Canne nella seconda guerra pu-
nica, il senato inviò lo storico Fabio Pittore a consultare l’oracolo di Delfi, il più rinomato di
tutta la Grecia e nel 204 ammise il primo culto orientale, quello della Gran Madre
Cìbele
che
era venerata a Pessinunte, in Frigia.
Fu compito degli eruditi romani dare un ordinamento alla moltitudine di divinità che si era-
no venute stratificando. Varrone era in grado di indicare
venti dèi
selecti
o
praecipui
, cioè le
divinità principali: Giano, Giove, Saturno, Genio, Mercurio, Apollo, Marte, Vulcano, Nettu-
no, Sole, Orco, Libero, Terra, Cerere, Giunone, Luna, Diana, Minerva, Vesta, Venere. I roma-
ni si trovarono così a costituire il loro
pantheon
, cioè il complesso delle figure divine ricono-
sciute. Non elaborarono però una teologia ma si limitarono a invocare le varie divinità, singo-
larmente o prese a gruppi, allo scopo di assicurarsi la
pax deorum
, cioè l’alleanza con gli dèi e
la conseguente certezza di averli dalla propria parte.
2
Il culto pubblico
Nel mondo romano la pratica religiosa era prevalentemente un
fatto sociale
a cui il membro
della comunità partecipava compiendo gli atti di culto. Una religione che non conosceva né
una rivelazione contenuta in libri sacri né una teologia con dogmi di fede si risolveva perlopiù
in una serie di
prescrizioni rituali
che si era tenuti a osservare meticolosamente e delle quali
erano custodi i grandi corpi sacerdotali (pontefici, àuguri, feziali ecc.).
L’aspetto ritualistico della religione romana è ben esemplificato dall’istituto delle
Vestali
. Que-
ste sacerdotesse – in numero di quattro al tempo di Numa Pompilio, poi di sei – erano scel-
te dal pontefice massimo tra ragazze dai sei ai dieci anni e duravano in carica trent’anni, osser-
vando una rigorosa castità. Le Vestali non avevano funzioni particolari, ma rappresentavano
una sacralità fine a se stessa, custodi dei valori simbolici dello stato associati al fuoco sacro che
il primo giorno di marzo di ogni anno veniva riacceso nel tempio di Vesta.
Ciò che contava ai fini della
pax deorum
era non compiere infrazioni religiose o espiarle quan-
to prima o, ancora, assumere misure preventive per non incorrere nell’ira degli dèi.
D’altra parte, il favore degli dèi era garanzia di successo e benessere: ogni rituale propiziatorio
instaurava una sorta di contratto per cui all’offerta non poteva che corrispondere un contrac-
cambio da parte degli dèi. Questo tipo di rapporto era espresso dalla formula
do ut des
(rima-
sta nell’uso comune per indicare un patto di favori reciproci, anche in ambito non religioso) e
Divinità latine
e
interpretatio
degli dèi greci
L’ordinamento del
pantheon
romano
Il ritualismo della
religione romana
Il contrattualismo
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