|
Abbigliamento
Generalità
Un tempo oggetto di semplice curiosità erudita, i costumi vestimentari e le mode degli antichi tendono oggi a essere considerati alla stregua di un autentico ‘codice’, sulla scorta di analoghi studi semiotici (i cosiddetti Fashion studies) che, in relazione all’età contemporanea, hanno mostrato come l’abbigliamento costituisca un sistema significante – con la sua ‘semantica’ e la sua ‘sintassi’ – al pari di qualsiasi altro codice (quello della lingua per primo, ma anche quello dei gesti, dell’alimentazione, ecc.). Le fonti antiche, purtroppo, non sono generose di testimonianze sul valore assegnato ai diversi capi di abbigliamento, la cui esatta conoscenza, del resto, è ovviamente affidata in buona parte alle fonti iconografiche. Anche per questo gli studi sulla ‘semiotica’ dell’abbigliamento antico devono considerarsi a uno stadio del tutto iniziale.
Vesti greche
Si usa distinguere i capi di abbigliamento greci nei due grandi gruppi degli endúmata (‘vesti’ in senso stretto, a diretto contatto col corpo) e epiblémata (‘sopravvesti’).
La veste per eccellenza è in Grecia il chitón («chitone»), corto e di lana quello dorico, più lungo (fino al ginocchio) e per lo più di tela quello ionico-attico. Esso aveva in genere due corte maniche o due passaggi per le braccia (un chitone con una sola manica era considerato tipico degli schiavi); le donne vi associavano talvolta il chitónion, una sorta di sottoveste sottile da portare sotto il chitone, che in genere veniva legato alla vita da una fascia di tela. La sopravveste per eccellenza era il mantello detto himátion, ampio e quadrangolare, che si portava avvolgendolo all’intero corpo a partire dalla spalla sinistra. A Sparta era invece d’uso il tríbon, un mantello più corto e più grezzo, mentre gli efebi (cioè i ragazzi compresi fra i 17/18 e i 20 anni) utilizzavano in genere la chlamús («clàmide»), un mantello più agile e leggero, fissato sopra il petto o sulla spalla destra da una fibbia e molto in uso durante i viaggi. Il chitone era l’indumento principale anche per le donne, che tuttavia lo portavano molto lungo e con pieghe estremamente ampie: le volute del chitone venivano raccolte poco sotto il seno e fermate da una cintura (è il cosiddetto kólpos). Il seno, sotto il chitone, era in genere fasciato da una mítra o tainía.
Diffuso invece in età arcaica (e in età classica soltanto a Sparta) era l’abito femminile noto come péplos, che in ambito ionico era per lo più impiegato come mantello sopra il chitone: un ampio quadrangolo di lana che veniva ripiegato in due intorno alla persona e fissato alle spalle e alla cintura. La sopravveste femminile più diffusa era comunque il mantello detto ampechóne. D’inverno si ricorreva spesso a una veste lunga e pesante, la chlaîna, oppure a un chitone di lana.
I tessuti più utilizzati erano inoltre il lino (talvolta finissimo) e il bisso per le vesti femminili più ricercate. I colori dominanti erano il bianco per gli uomini, e tinte più accese (come il giallo croco, il rosso porpora) per le donne. Molto diffusi erano i ricami, specialmente per le vesti femminili e in generale per gli orli del chitone e dei mantelli. I copricapi erano di uso relativamente raro: i più diffusi erano il pîlos e il pétasos (di forma varia), ma anche la kausía macedone, a tesa orizzontale e molto ampia. Le calzature erano di tipo assai variabile: dalle semplici ma usitate ciabatte scoperte (gli hypodémata) – con o senza corregge per assicurarle alla caviglia e con suole di cuoio e sughero – alle scarpe vere e proprie (le embádes), di uso esclusivamente maschile e spesso limitato alle classi più umili. Calzature assai note erano il sandálion (ciabatta con infradito), la crepís (una sorta di mezza scarpa che copriva solo le dita, fatta in genere di cuoio), le endromídes (stivali a mezzo polpaccio), i cóthornoi o persiká, calzature assai eleganti e per lo più femminili.
Vesti romane
L’abito nazionale romano era costituito dalla tunica, distinguibile in tunica interior (più aderente al corpo) e tunica exterior (il significato dei due termini è comunque discusso). In origine essa non era che una lunga veste senza maniche (o con maniche estese al massimo sino ai gomiti), stretta alla cintola da un cingulum, tessuta di lana o di lino, utilizzata pressoché in ogni occasione della giornata lavorativa. La sua lunghezza era regolata da ben precise norme di gusto, e una tunica troppo lunga (fino alle caviglie) era considerata segno di affettazione. I patres (i senatori) erano caratterizzati dalla tunica laticlavia: alla normale tunica era cioè aggiunta una striscia di porpora intessuta fra il collo e la cintura; più tardi divenne tipico del ceto dei cavalieri l’angustus clavus, una striscia di porpora più sottile (o due strisce di porpora sottili e parallele). Gli schiavi e gli uomini di umile condizione sociale indossavano semplicemente la greca exomís, una tunica molto stretta e corta, adatta al lavoro.
La sopravveste per eccellenza era la toga, l’altro abito normale del cittadino romano, segno perciò di status, il cui uso venne regolato da ben precise norme legali (esso era vietato, per esempio, a chi avesse perduto i diritti civili, come gli esuli, oltre che alle donne e ai non romani; l’assunzione della toga virilis era il segno del passaggio dalla puerizia all’età adulta). La toga era fissata alla spalla sinistra e lasciata discendere lungo il corpo (che essa avvolgeva con almeno un giro) in larghe e sinuose pieghe, segno imponente di distinzione. Il lembo estremo della toga veniva nuovamente gettato sulla spalla sinistra ed eventualmente sostenuto dal braccio. I magistrati avevano diritto alla toga praetexta, cioè orlata di porpora e talvolta rifinita in oro. Il tessuto era rigorosamente di lana e a Roma era attivo un fiorente circuito di tintori-lavandai (i fullones) specializzati nel trattamento delle toghe. In età imperiale si diffuse una nuova sopravveste, da abbinare (o da sostituire) alla toga, che comunque rimase di rigore nelle occasioni ufficiali: la lacerna, un mantello leggero ma spesso assai sontuoso, perché in genere trattato con la porpora o con altri coloranti di lusso. Altre sopravvesti di un certo successo furono la paenula (considerata più che altro un comodo indumento da viaggio) e la laena (di ampiezza ancora maggiore rispetto alla toga).
Gli abiti femminili comprendevano di rigore la tunica (molto più lunga e pieghettata rispetto a quella maschile, sicché la cintura era d’obbligo), la stola (che era la sopravveste più caratteristica delle matrone) e la palla (un mantello elegante, spesso fornito di un cappuccio). Le donne di buona condizione portavano in genere un velo (il flammeum), mentre l’uso dei copricapi presso i maschi fu sempre molto limitato, e in genere intonato all’uso greco. Le calzature erano originariamente limitate alle solae (scarpe basse o sandali, da casa) e al calceus, d’obbligo con la toga, e particolarmente ricco se indossato da senatori o comunque da patrizi: era una scarpa che copriva tutto il piede ed era dotata di molte corregge; all’occorrenza poteva essere variamente ornata, secondo il rango e il ruolo della persona che lo indossava. Ma molte scarpe all’uso greco (particolarmente le crepidae) si diffusero a partire dal II secolo a.C. Le scarpe delle donne si distinguevano dalle scarpe maschili per il fatto di essere molto più morbide e colorate. In guerra le calzature per eccellenza erano le caligae, mentre sopra l’armatura si indossava il caratteristico mantello di lana detto sagum.
[Federico Condello]
|