troviamo appartengono in assoluta prevalenza alle
popolazioni centrali, ampie e stabili, sarebbe un caso
molto fortunato se incappassimo nei fossili formati-
si in piccole regioni e in tempi molto brevi: si spiega
così la carenza di fossili delle forme di passaggio.
L’idea di un’evoluzione incentrata su popolazioni
periferiche, soggette a intense pressioni selettive e a
deriva genetica, è ripresa in realtà dalla teoria sinte-
tica (in particolare da Mayr) ed è quindi condivisa
dall’assoluta maggioranza degli evoluzionisti. Non
c’è invece accordo sulla convinzione di Eldredge e
Gould che la formazione di nuove specie, di nuove
famiglie e persino di nuovi
phyla
, non sia un pro-
cesso “graduale e continuo” ma avvenga in modo
“improvviso e discontinuo”.
I due paleontologi americani ritengono che i
preadattamenti
(le caratteristiche solo “abbozzate”
ritenute fondamentali dai gradualisti come Mayr,
§ 6.1) in molti casi non forniscano alcun vantaggio
evolutivo e quindi non possano spiegare la comparsa
di una struttura complessa; sostengono invece che
una piccola modificazione genetica (una mutazione
o una ricombinazione) può in certi casi produrre
un
adattamento chiave
, ossia una caratteristica che
modifica in modo sostanziale le abitudini di vita e
la fitness di chi la possiede, senza isolarlo riprodut-
tivamente dal resto della popolazione.
La comparsa, anche in un solo individuo, di un
adattamento “completamente formato” e la sua ra-
pida diffusione in una piccola popolazione periferi-
ca potrebbero dare origine a una nuova specie che,
in poche centinaia o migliaia di anni, soppiantereb-
be completamente quella da cui è derivata.
Eldredge e Gould rigettano il gradualismo e
propongono il modello di un’evoluzione “a scatti”,
in cui i processi macroevolutivi non avvengono per
mezzo di lunghe fasi di transizione di tipo microe-
volutivo ma quasi improvvisamente, in seguito alla
comparsa di “mostri di belle speranze”.
Ma come possono piccole modificazioni gene-
tiche produrre risultati così eclatanti? La risposta è
venuta recentemente dalla genetica: una mutazione
può produrre effetti notevoli sul fenotipo di un in-
dividuo se coinvolge i geni che controllano lo svi-
luppo (vedi
SCHEDA 6
a pagina seguente).
L’ipotesi degli equilibri intermittenti è stata am-
pliata da
StevenM. Stanley
: basandosi sull’assunto
che la cladogenesi è il principale modello evolutivo,
afferma che la selezione naturale può agire anche a
livello di specie. Se più specie discendenti da pro-
genitori comuni coesistono (
39
), la selezione na-
turale sceglie quelle più adatte ed elimina le altre.
Secondo Stanley quindi anche le specie nascono
(con la speciazione) e muoiono (con l’estinzione),
lottando tra loro per la “sopravvivenza”.
Nell’attuale dibattito interno alla biologia evo-
luzionistica si scontrano quindi due visioni della
macroevoluzione: secondo l’ipotesi gradualistica, i
meccanismi che producono microevoluzione (mu-
tazioni, deriva genetica, selezione ecc.) sono suf-
ficienti a spiegare anche i processi macroevolutivi
e se a volte sembra che l’evoluzione effettui dei
“salti”, è perché i fossili ce ne danno una visione
“approssimativa”. Le nuove ipotesi invece danno ri-
sposte diverse, che contraddicono alcuni punti della
teoria sintetica (come il gradualismo o la selezione
individuale), ma
rimangono sempre nell ’ambito della
biologia evoluzionistica
.
Nonostante esistano infatti tra gli studiosi diver-
genze relative ai meccanismi con cui l’evoluzione
agisce,
queste controversie non mettono assolutamente
in dubbio l ’effettivo verificarsi dei processi evolutivi,
di cui nessuno oggi può mettere seriamente in di-
scussione l’esistenza: l’evoluzione non è un’ipotesi e
nemmeno una teoria, è un fatto accertato.
21
In che cosa la teoria degli equilibri intermittenti
differisce dal gradualismo filetico?
Facciamo il punto
Figura 39
I fossili dei
progenitori del cavallo
comprendono molte
specie derivate da
Hyracotherium. In colore
è rappresentata la
sequenza che ha portato
all’attuale Equus, in
bianco le linee evolutive
che si sono estinte.
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