Un’educazione di (quasi) un secolo fa

A cura di Filippo Benfante

L’autore e il libro

Luigi Meneghello (1922-2007) è oggi riconosciuto come uno dei maggiori autori italiani del Novecento. Nel 1976, lo stesso anno della seconda edizione dei Piccoli maestri (prima ed. 1964) e un anno dopo la revisione di Libera nos a Malo (prima ed. 1963), pubblicò Fiori italiani, pagine di ricordi e riflessioni sull’educazione che lui e la sua generazione aveva ricevuto nell’Italia fascista, dalla fine degli anni Venti all’ingresso nella Seconda guerra mondiale. Beninteso, soprattutto quella parte – piccola nell’Italia di allora – che, per condizione socioeconomica, dopo le elementari continuò gli studi frequentando il ginnasio-liceo, e nella particolare variante che fu la provincia di Vicenza.

Il libro comincia con queste parole: «Che cos’è un’educazione?». In una breve introduzione Meneghello racconta che cominciò a porsela nel 1944, in un momento cruciale della sua esperienza di partigiano, isolato e nascosto durante un rastrellamento nazifascista nell’estate del 1944. Quindi mise a fuoco la questione nel dopoguerra, in Inghilterra, dove fece la sua carriera di italianista all’università di Reading. Decisivo fu partecipare a una discussione tra professori universitari di varie discipline, provenienze, età, di fronte a una platea di centinaia di studenti. Dopo che ognuno era intervenuto sul tema (education e specialization), ricorda Meneghello, si alzò «un ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. “Noi siamo vasi di fiori” disse. “Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”. S. si portò a casa la teoria dei fiori in vaso e ci pensò su qualche anno» (Meneghello, Fiori italiani cit., p. 18). «S.», per «Soggetto», «Scolaro» o «Studente», è l’alter ego a cui Meneghello ricorre per tenere a distanza la sua riflessione autobiografica; l’ultimo capitolo, dedicato al «maestro» di antifascismo Antonio Giuriolo comincia così: «Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestro di S., mio, e dei nostri compagni».

Per riprendere le parole di Giulio Nascimbeni dall’Introduzione all’edizione a cui facciamo riferimento qui (Mondadori, Milano 1988): Fiori italiani «è […] una densa, ironica, amara, irresistibile expertise su ciò che si insegnava e si imparava negli anni Trenta, su “quanto tipica era, quell’educazione, e di che cosa era tipica”» (p. 6). Proprio l’expertise e l’ironia o, per usare un’altra coppia, la lucidità e il disincanto maturati con l’esperienza, gli studi e gli incontri, fanno sì che Meneghello, dal suo caso specifico, formuli una domanda generale, più ampia, che oggi possiamo fare nostra.

 

Il brano

All’inizio del 1976, nei suoi appunti di lavoro Meneghello ragionava del futuro Fiori italiani: «Per questo libro sono tornato sui banchi di scuola, ho rifatto il ginnasietto, il ginnasio superiore, il liceo, non solo di anno in anno in anno ma di mese in mese, quasi di ora in ora, 8-9 italiano, 9-10 latino, 11 matematica, 12 chimica…». Le pagine che seguono riguardano il liceo: una cultura «riflessa» (scolastica), un prevedibile impianto nazionalista, in versione fascista e clericale, ma anche qualche sorpresa.

 
I livelli della cultura riflessa a cui si accedeva a scuola nel tardo pomeriggio dell’Era Fascista, quali erano?

C’era anzitutto il livello della cultura classica, appresa attraverso gli scritti degli autori più vari, da Eutropio a Pindemonte: dove si trovavano memorabili battute di guerrieri e filosofi, ragguagli sugli effetti delle pugnalate e sulla boria, e con poche altre cose, qualche modello di bellezza suprema […]. […]

Venivano poi i cristiani, che dicevano noli foras ire,[1] ma poi correvano fuori, e come: vedi Tertulliano, sempre addosso alle vedove; e Sant’Agostino che sentiva i barbari picchiare alle porte e non diceva «avanti!» ma mormorava tra sé «ah, io quando era bambino era una teppa! una lingéra![2]». Tale era il latte del classicismo pagano e cristiano.

Si accedeva inoltre al livello della cultura nazionale, i nostri propri classici, in ciascuno dei quali si trovava la conferma che l’Italia è un paese con un dono infelice di bellezza in seguito rimediato dall’improvviso connubio di Garibaldi con Cavour. Dante era ammirevole perché scriveva cose, e il Petrarca perché scriveva parole. Il Carducci era maschio, il Pascoli femmineo: bravi l’uno e l’altro. Tutti sono da pregiare per qualche motivo. Nel caso del Tasso è un grande squilibrio, in quello del Manzoni un grande equilibrio. Tutto conta esattamente come il suo opposto. Finché si crede che l’Ariosto scrivesse quasi all’improvviso, lo si loda; quando risulta che correggeva e limava come un matto, lo si loda ancora. Evviva la spontaneità: evviva il contrario. Forse il massimo del merito sta nell’imitare col massimo di laboriosità il massimo di spontaneità!

Circa il quadro generale dello sviluppo dell’umanità civile, pareva che importasse soprattutto fissare alcuni capisaldi, guerre puniche, Berengario, spartizioni della Polonia, fratelli Bandiera, sanzioni: le cose essenziali.[3]

[…] Un po’ ossificata era la storia. La feccia di Romolo s’era dissolta, ed era restato non qualche ossetto di ciliegia, ma un osso singolo dalla forma caratteristica: i romani (anzi i pomàioi, dal giorno che Matteazzi nominandoli in greco li aveva chiamati a quel modo).[4] I pomaioi erano così, gli assiri cosà; il papato medievale, il rinascimento, la rivoluzione francese significavano o «erano» certe cose. Quando si accennava a una problematica era peggio che andar di notte. Quali sono state le «cause» della «caduta» dell’Impero romano? Come fu Napoleone? fu così o fu così? generò tirannia, oppure libertà? Non voglio dire che è sbagliato domandarselo, ma qui era domandato in modo da non potersi dare alcun peso alle risposte.

Libri e insegnanti di storia non facevano mai sentire che tutto ciò che c’è stato è stato un processo, e che siamo parte di un processo anche noi. Mancava ogni riferimento al primo di questi processi, che veniamo dal ceppo dei primati. Non che insegnassero esplicitamente che ci ha creati Iddio, ma nemmeno insegnavano che non ci ha creati Iddio. Iddio, lo mettevano nell’ora di Religione, una specie di banco degli asini delle materie, che le veniva debolmente conteso dalla Cultura militare: e pareva naturale perché di quell’ora di religione non avevamo alcun bisogno, essendo stati ottimamente informati sulla struttura della religione già nell’infanzia.

Mancavano Darwin, la cosmologia, Marx e Freud, c’era Mendel, forse perché era prete, e Rutherford:[5] già, è strano che ci permettessero di giocare con gli atomi e i gameti. In fondo era proprio lì che poteva mettersi a battere il cuore della faccenda, ma non pareva che se ne dessero pensiero. È per questo che bisogna andar cauti con la teoria del complotto organizzato. Perché, se gli atomi sono fatti così, casca tutto: se è questo che succede coi gameti, è fatta la frittata, l’Italia non conta nulla, il Galluppi può andare all’osteria![6]

La religione organizzata e il fascismo avrebbero dovuto essere i due apici del sistema educativo, il doppio cacume, e invece pareva che venissero spazzati sotto i banchi, come se riuscissero un po’ imbarazzanti.

La scuola non era, in senso serio, cattolica, né fascista. Ciò che vi era dentro di insoddisfacente non aveva bisogno di appoggiarsi al cattolicesimo o al fascismo, se non come ci si appoggia ai vicini sul tram, poco e irregolarmente.

(Luigi Meneghello, I fiori italiani (prima ed. 1976), introduzione di Giulio Nascimbeni, Mondadori, Milano 1988, pp. 87-92)

[1] Citazione da Agostino, De vera religione, 39, 72: Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, «Non uscire da te stesso, ritorna dentro di te, la verità abita all’interno dell’uomo».

[2] Sta per sinonimo di teppista, bullo. È una voce gergale il cui primo significato è «miseria» e per estensione indica chi vive di espedienti al limite della legalità. Si trova in molte varianti, per esempio «ligèra» o «leggera». Sono famose le Autobiografie della leggera raccolte dal ricercatore e militante politico di sinistra Danilo Montaldi (1929-1975): storie di «vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute» come si leggeva sulla copertina della prima edizione (Einaudi, Torino 1961; l’edizione più recente Bompiani, Milano 2018).

[3] «Capisaldi» di un racconto patriottico e nazionalista. Berengario del Friuli (ca. 850-924), re d’Italia dall’888 e imperatore dal 915 alla morte, nella retorica (non solo fascista) dell’epoca era considerato uno dei «precursori» dell’unità d’Italia. Le «sanzioni» sono quelle che la Società delle Nazioni inflisse all’Italia che aveva invaso l’Etiopia nel 1935.

[4] Matteazzi, compagno di classe di S., aveva frainteso la rho maiuscola greca per la latina P, trasformando i Romaioi (i «romani») in Pomaioi, che nel vicentino potevano suonare come «quelli dei pomi» (le mele).

[5] Il fisico britannico Ernest Rutherford (1871-1937) condusse ricerche fondamentali per la comprensione della struttura atomica.

[6] Il filosofo originario di Tropea Pasquale Galluppi (1770-1846), anche lui figura inserita nel pantheon (culturale) del Risorgimento.

 

Per approfondire

Un’edizione più recente di Fiori italiani (BUR, Milano 2006, con introduzione di Tullio De Mauro) riunisce Un mazzo di nuovi Fiori raccolti negli anni Settanta (materiali rimasti fuori dalla prima edizione del libro).

Un recente volume di saggi critici, allestito per il centenario della nascita, è disponibile online: Meneghello 100, a cura di Francesca Caputo, Ernestina Pellegrini, Diego Salvadori, Franca Sinopoli, Luciano Zampese, Firenze University Press, Firenze 2024. Una sezione è dedicata a «Educare e insegnare».

Rimandiamo anche alla presentazione dei manuali come fonte curata da Silvia Benini in questo spazio online. Fiori italiani è un vademecum per chi voglia pensare alla scuola, alla storia dell’istituzione e dei rapporti tra le persone che la frequentano.

«Ci dettava le poesie, segno che se le sceglieva lui. Dettando te redimito… nel punto dove dice facesti nome uno Italia si fermò e disse: “Questi sono versi molti brutti: certe volte il Carducci scrive da cane”. Ripensandoci da adulto S. si scaldava. Ma guarda: pretendiamo di presentarci come vittime di una sorta di plagio, e vien fuori che parlavano così!» (Meneghello, I fiori italiani cit., pp. 50-51).