Schiavi affrancati nella Roma dei papi (XVI-XVIII secolo)

Serena Di Nepi, I confini della salvezza. Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna, Roma, Viella, 2022, 250 p. Scheda a cura di Eleonora Faricelli.

Libertà per la salvezza dell’anima

Nel 1782 fu rappresentato a Vienna il Ratto del Serraglio, un’opera in tre atti con le musiche di Wolfang Amadeus Mozart che metteva in scena le avventure dei suoi protagonisti, schiavi cristiani condotti dinanzi a un nemico antico, che si era arrestato alle porte di Vienna appena un secolo prima: il Turco. Con quest’immagine evocativa e carica di significati simbolici Serena Di Nepi apre il suo libro I confini della salvezza. Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna, in cui viene raccontata la vicenda che, tra il 1516 e il 1797, vide circa 900 schiavi trovare la libertà a Roma davanti alla carica municipale dei Conservatori, tramite una procedura celebrata in Campidoglio. Si trattava di una cerimonia antichissima, rimasta cristallizzata fin dai tempi dell’imperatore Caracalla (III secolo d.C.) e riportata in auge dal papa Pio V che la trasformò in un perfetto meccanismo di salvezza cristiana. Qualsiasi schiavo battezzato, perché nato cristiano alla nascita o perché convertito, si fosse presentato in Campidoglio avrebbe, infatti, ottenuto la liberazione e la cittadinanza. In altre parole, avrebbe smesso di essere schiavo. Tale meccanismo sarebbe rimasto in uso fino al 1798, quando poi i venti della Rivoluzione francese sarebbero spirati anche tra le strade di Roma e avrebbero messo fine al potere temporale della Chiesa.

Nei Confini della salvezza, l’autrice ripercorre dunque la singolare storia delle affrancature romane e la colloca all’interno delle pratiche adottate dalla Chiesa nei confronti delle minoranze religiose. Il tema della schiavitù, oggetto di questo lavoro, è un tema vasto e complesso che negli ultimi anni ha goduto di un’attenzione crescente da parte della storiografia. Il volume di Di Nepi si inserisce nella ampia messe di produzione scientifica sul tema, ponendo Roma all’interno delle traiettorie della schiavitù globale e mostrando, numeri alla mano, la sua marginalità.

 

Le affrancature romane nel contesto del Mediterraneo moderno

Il testo si articola in cinque capitoli. Nel primo, il sistema delle affrancature romane viene contestualizzato nello scacchiere internazionale. L’assoggettamento di uomini e donne segnò infatti la storia del Mediterraneo per secoli e il fattore religioso, dopo la conquista ottomana di Costantinopoli (1453), divenne centrale nella contrapposizione tra cristiani – dal XVI secolo tanto cattolici quanto protestanti – e musulmani. La sorte di chi veniva fatto prigioniero in seguito alla guerra di corsa, alle battaglie navali, alle razzie contro i centri costieri era la schiavitù in un mondo dove la religione dominante era diversa dalla propria. Esistevano meccanismi di riscatto, e inoltre al termine dei grandi scontri navali chi vinceva, in genere, liberava chi era stato schiavo degli sconfitti. In questo scenario, tuttavia, non erano rari i casi di cambi di fede da parte degli schiavi che, una volta convertiti, accedevano a un sistema di protezione maggiore da parte del padrone che valutava costantemente il loro comportamento perché fosse effettivamente rispondente alla nuova professione di fede.

Il secondo capitolo ripercorre la storia delle affrancature romane dalla loro istituzione sotto l’imperatore Caracalla e la rilegge nell’ottica della crisi della cristianità nel Cinquecento. Furono infatti tre i pontefici a tornare sull’editto di Caracalla del 212 – che allora aveva garantito la cittadinanza a ogni individuo libero che ne fosse stato ancora sprovvisto: Clemente VII, Paolo III e poi Pio V, sotto i quali la procedura mutò progressivamente. Essa, infatti, entrò nell’orbita del potere temporale e religioso della Chiesa e il battesimo divenne imprescindibile affinché gli schiavi potessero ottenere la libertà. Con l’ultima riforma voluta da Pio V, nel contesto della contrapposizione con l’Impero ottomano – erano gli anni della battaglia di Lepanto (1571) –, Roma divenne il centro della salvezza: Roma, e Roma soltanto, poteva garantire questo privilegio agli schiavi nati o diventati cristiani che si fossero genuflessi in Campidoglio. L’insistenza sulla territorialità della procedura permetteva a quest’ultima di rimanere strettamente incardinata nel perimetro dell’azione cattolica, rendendo il binomio battesimo/emancipazione irreplicabile altrove. Roma era così un faro per quanti avessero cercato, insieme, libertà e vera fede, presupposto per la salvezza.

 

Storie di uomini e di donne da ogni angolo del mondo

L’analisi quantitativa, qualitativa e lessicale delle restitutiones – vale a dire quanto veniva annotato dai notai sulla vita del supplice corredato da una breve descrizione fisica – è al centro dei capitoli terzo e quarto. L’autrice permette così al lettore di scoprire le storie di uomini e donne che si trovarono a vivere situazioni difficilissime e per i quali il viaggio verso Roma e l’ascesa in Campidoglio rappresentavano un punto di svolta decisivo. Si entra così in contatto, sia pure attraverso il filtro dell’istituzione, con una dimensione intima e personale di circa 900 supplicanti, per lo più uomini, fatta eccezione per 46 donne – ma del resto per queste ultime il viaggio verso il cuore della cattolicità poteva comportare rischi maggiori. Gli schiavi infatti provenivano dai luoghi più disparati, non solo dall’Italia e dall’Europa ma anche oltre, come l’Impero ottomano e il Levante, l’Africa subsahariana, l’Asia, l’America del Sud. Non importava se prima di quel momento essi avessero praticato altri culti: una volta in Campidoglio abbracciavano, poiché battezzati, la fede cattolica ed erano perciò assimilati alla maggioranza dei fedeli.

L’ultimo capitolo presenta tre casi studio, le cui vicende si situano rispettivamente a Malta, in Congo e in Corea. Risaltano così i racconti umani dei protagonisti, con le loro paure e i loro sentimenti. È quanto si evince, per esempio, dalla storia di Ambarca e Filfilla, due schiave al servizio del turco Muhammet Bolgia. Egli era giunto, con le schiave al seguito, nell’isola di Malta nell’ottobre del 1763 e le due giovani avevano sin da subito manifestato il desiderio di abbracciare il cattolicesimo. Erano riuscite a farsi battezzare, ma la conversione era stata ritenuta nulla dal Bolgia che non riconosceva loro alcuna capacità di discernimento in quanto donne. Le autorità locali si risolsero a trasmettere il dubbio sul da farsi a Roma e la risposta fu chiara: dal momento in cui era stato impartito il battesimo, esse non potevano più sottostare al volere del Bolgia, in quanto musulmano, e dovevano essere emancipate per essere poste al riparo da possibili ritorsioni del vecchio padrone.

 

Il cambiamento nel XIX secolo: la Chiesa «abolizionista»

Dunque, I confini della salvezza pone l’accento su un dato certo per le società di antico regime: la schiavitù era un fenomeno normalmente diffuso, anche in Europa. Partendo da questo assunto, lo sguardo è puntato su Roma e sull’unicità del cammino di salvezza che essa garantiva. Dopo il 1797, quando Paulus fu l’ultimo schiavo a essere emancipato, la Chiesa mutò sensibilmente la propria opinione in materia e si ricollocò, nei primi decenni dell’Ottocento, su posizioni abolizioniste. Dapprima furono scomunicati i mercanti coinvolti nella tratta attraverso la bolla In supremo apostolatus, pubblicata nel 1839 da papa Gregorio XVI, che pure non menzionò il ruolo svolto dalla Chiesa sino a quel momento nella tratta e neppure la presenza degli schiavi nei territori ecclesiastici. Si dovette attendere ancora qualche decennio per una condanna definitiva, che arrivò nel 1888 quando papa Leone XIII rese pubblica l’enciclica In plurimis con la quale la schiavitù fu definitivamente considerata contro natura. A Roma, lo stato di minorità degli schiavi aveva comportato una soluzione semplice, rinvenuta nella conversione. Quest’ultima rappresentava l’atto finale con la quale la maggioranza cattolica inglobava le minoranze religiose, senza per questo riconoscere lo statuto di alterità. Come scrive Di Nepi in conclusione del suo volume: «gli schiavi, per definizione, erano estranei radicalmente tali, da escludere dalla comunità [...]. Il prezzo da pagare per l’immissione [...] era, ovviamente, la rinuncia totale e cosciente a ogni traccia della precedente appartenenza, che veniva cancellata materialmente dall’imposizione di un nuovo nome, dal cambio delle vesti e dalla collocazione in una posizione differente». L’età delle rivoluzioni, poi, avrebbe modificato ancora il quadro e, allora, le minoranze avrebbero chiesto a gran voce diritti e ruoli senza per questo dover rinunciare alla propria alterità rispetto alla maggioranza.