Soltanto l'uomo libero godeva dei diritti politici (votare, eleggere e farsi eleggere, percorrere la carriera politica, il corsus honorum). La donna ne era del tutto esclusa; anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, di un uomo che esercitasse su di lei la tutela: questi era il padre, poi il marito e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio piú prossimo ("Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus". "sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali"). Le limitazioni alla capacità giuridica della donna romana vengono spiegate dai giuristi latini con pretese qualità negative come l'ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo) ecc. Da un punto di vista sociale, la donna che aveva avuto un solo marito (univira) aveva maggiori considerazioni di una che n'aveva avuti diversi. Il solo ambito dell'attività pubblica al quale le donne romane potevano partecipare era quello religioso. Da tutte le altre opere pubbliche, erano escluse. Gli autori antichi ci hanno tramandato, con qualche eccezione, l'immagine della donna romana completamente dedita alle virtù domestiche. La donna di famiglia ricca godeva anche di una certa libertà di movimento: partecipava ai banchetti in compagnia del marito (contrariamente a quanto accadeva in Grecia), poteva far visite alle amiche o passeggiare liberamente per la città e talvolta influiva indirettamente sulla politica romana, naturalmente sempre attraverso qualche uomo. Figura rilevante é quella della concubina: erano chiamate cosí le donne con cui un uomo, sposato o no, aveva abitualmente rapporti sessuali.
Ma fra tutte le donne, quelle che vivevano nella condizione più dura e disumana erano sicuramente le schiave: considerate parte del patrimonio familiare, trattate come oggetti, erano destinate alle attività più pesanti (il lavoro nei campi, la macinatura del grano, la pulizia della casa). Queste donne, senza alcuna libertà, dovevano essere inoltre a disposizione dei maschi della familia, non avevano il diritto di sposarsi e, se legate ad un uomo anch'esso schiavo, la loro unione poteva essere interrotta dal padrone che, in qualunque momento, aveva la facoltà di vendere uno dei due conviventi. Anche i loro figli non avevano diritti: generati da una schiava erano anch'essi considerati schiavi.
Al pari degli impotenti o degli eunuchi, la donna romana, nel periodo arcaico, non poteva adottare; non poteva neppure rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; non poteva fare testamento o testimoniare, né garantire per debiti di terzi, né fare operazioni finanziarie; non poteva neppure essere tutrice dei suoi figli minori. Le veniva preclusa la facoltà d'intervenire nella sfera giuridica di terzi semplicemente perché (e con questo in pratica si chiudeva il cerchio della discriminazione) non aveva mai ufficialmente gestito alcun tipo di potere su altri. Sotto questo aspetto la società maschilista romana non faceva molta differenza tra donne ignobili e donne rispettabili, come per esempio le matrone. Le differenze erano di carattere etico-sociale, non certo politico. Tra le prime, spesso indicate come non romane, vi erano coloro che provenivano dal mondo del teatro, del circo, della prostituzione. Queste donne appartenevano ad uno status sociale inferiore, riconoscibile ad esempio dal fatto che era loro consentito di non coprirsi il capo o dal divieto di portare la stola, quel manto che era considerato proprio della rispettabile matrona. Queste donne di rango inferiore, come pure quelle ufficialmente dichiarate adultere, venivano private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili. A differenza delle donne egiziane le romane non avevano diritto al nome proprio. Nel caso avessero un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico. Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen, il nomen e il cognomen, ma uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare. D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere, avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito.