Plutarco

Vita Nato intorno al 50 d.C. a Cheronea (Beozia), Plutarco si formò ad Atene, dove ebbe come maestro di filosofia il platonico Ammonio. Durante la sua vita visitò alcune città dell'Asia Minore, Alessandria d'Egitto e, soprattutto, Roma, dove strinse contatti con la dirigenza politica e con gli stessi imperatori. Per lo più, però, preferì trascorrere l'esistenza nella piccola Cheronea, inframezzando i suoi dotti studi con visite al vicino santuario di Delfi, che, in qualità di sacerdote, tentò di risollevare dallo stato di decadenza in cui allora si trovava. Morì sotto l'impero di (sto →) Adriano, attorno al 120.

Opera Plutarco fu autore di uno sterminato numero di opere, in parte perdute. Le numerose opere superstiti sono state organizzate in età bizantina in due gruppi: le Vite Parallele (ventidue coppie di vite e quattro vite singole); e gli scritti filosofici, riuniti in età bizantine in un'unica raccolta e indicati, impropriamente, con il nome di Moralia. In realtà, abbiamo a che fare non solo con scritti di morale (che pure costituiscono parte importante della raccolta), ma con: a) scritti propriamente filosofici ed etici (p.es. Sulla procreazione dell'anima nel Timeo; Sul modo di vincere l'ira; Sulla tranquillità dell'animo; Sull'impossibilità di vivere bene secondo gli insegnamenti epicurei; etc.); b) operette retoriche (p.es. Sulla gloria degli Ateniesi; Sulla fortuna o virtù di Alessandro Magno; etc.); c) opere politiche (p.es. Precetti per la gestione dello stato; etc.); d) opere teologiche (p.es. Sulla decadenza degli oracoli; Sulla E di Delfi); e) opere di fisica (p.es. Sulla faccia che appare nel cerchio lunare); f) opere di critica letteraria (p.es. Confronto tra Aristofane e Menandro).

Caratteristiche generali dell'opera Plutarco è l'esponente per eccellenza di un'epoca di acculturazione, in cui la civiltà del passato è vista come sorta di bell'oggetto da museo da esporre agli sguardi incantati di appassionati visitatori. Così Plutarco trova nei testi del passato, comodamente riuniti nella propria ricchissima biblioteca, la principale fonte di ispirazione per il suo capolavoro, le Vite Parallele, che debbono il loro nome al fatto che in esse si pongono in parallelo le vicende di un personaggio greco e di uno romano, le cui vite sono caratterizzate da analogie di qualche sorta (p.es. Alessandro e Cesare; Demostene e Cicerone; Alcibiade e Coriolano; etc.). Ora, se nel gusto per il confronto Plutarco si rivelava, indubbiamente, figlio dell'educazione retorica del suo tempo, è pur vero che la rievocazione delle gesta dei grandi del passato dà luogo a veri e propri capolavori, in cui, più che all'esattezza del dato storico, si bada alla rievocazione dello stato d'animo del personaggio e all'effetto che le sue parole e i suoi atti, consegnate in gesti esemplari, sono capaci di produrre sull'animo del lettore. Per questo Plutarco tiene a chiarire la differenza che intercorre tra la storia pragmatica, in cui l'esattezza del dato è fondamentale; e il genere biografico da lui praticato, in cui quel che conta è saper mettere in rilievo l'èthos del personaggio.

Negli scritti filosofici, Plutarco non si rivela come pensatore originale, ma piuttosto come attento lettore delle opere del passato cui attinge con gusto, fornendoci spesso importantissime testimonianze su problemi di cui, altrimenti, poco o nulla sapremmo. Se, indubbiamente, la produzione filosofica di Plutarco è inferiore a quella delle Vite Parallele, va però detto che l'opera plutarchea rimane tra le più importanti testimonianze di quella crisi dei valori religiosi che, di lì a poco, si sarebbe tradotta nella diffusione di nuove forme di religiosità (dal mitraismo al cristianesimo, ovviamente). La base filosofica di Plutarco è costituita dalle opere di Platone, lette, però, in chiave mistico-religiosa e non senza apporti da altre scuole filosofiche (peripatetica, stoica, ma non epicurea!). Notevole, soprattutto, l'insistenza sulla presenza e sul ruolo attivo dei demoni nella vita umana, ai limiti della superstizione. Importante, infine, l'ampio spazio concesso a riflessioni su problemi di carattere morale (i rischi dell'ira; il perseguimento della tranquillità dell'animo), per cui si impone, ovviamente, il confronto con l'opera latina di poco anteriore di Seneca.

Lingua e stile La lingua adoperata da Plutarco è un attico letterario fluente ed elegante, in cui trovano spazio influssi della koiné parlata. Significativi, in proposito, i dati sull'uso dell'ottativo, che è in via di completa scomparsa nella koiné: è stato notato (Ζiegler), infatti, che se in cento pagine di una stesso formato si trovano 330 ottativi nell'attico Senofonte e soli 28 nella koiné polibiana; viceversa Plutarco presenta un valore intermedio pari a 50 attestazioni. In una preziosa testimonianza antica (fr. 186) si riporta che «per Plutarco sarebbero stati caratteristici dello stile attico la chiarezza e la sinteticità». Di fatto, però, questo non sembra vero per il periodare plutarcheo delle Vite, caratterizzato il più delle volte da una minuscola proposizione principale e da un numero assai alto di subordinate implicite con il participio congiunto. L'impressione, in effetti, è quella di una frase che, dopo essere stata scritta con semplicità all'inizio, sia stata poi progressivamente accresciuta e appesantita dall'aggiunta di participi congiunti e incisi di notevole estensione. La disposizione spesso artificiosa dei sostantivi è dovuta, quasi sempre, al bisogno di evitare lo iato. Uno stile fortemente letterario e artificioso, insomma, quello plutarcheo, ma indubbiamente affascinante alla lettura e, spesso, di certa difficoltà.

La lingua dei Moralia si presenta meno curata di quella delle biografie, e con una maggiore tendenza all'uso di sostantivi astratti formati da aggettivi neutri. È stato detto, non senza ragione, che «poiché Plutarco creava con rapidità enorme, non gli rimaneva il tempo di limare minuziosamente e faticosamente le sue frasi» (Ζiegler). Pure i Moralia, proprio perché stilisticamente meno accurati delle Vite Parallele, rimangono un'importante testimonianza sull'uso del greco contemporaneo all'autore, che filtra dall'onnipresente schermatura della patina atticista. Significativo il giudizio di Jacob Bernays (1824-1881), secondo il quale «soltanto chi ha letto i Moralia può dire di conoscere il greco antico».

Vedi versioni 447-474 e 533-542, alle pp. 423-437 e 476-481 di Saphéneia.