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Rito
Definizione
In una prospettiva comune a molti storici delle religioni, il rito si oppone al mito come i drómena (le azioni, i gesti) si oppongono ai legómena (le parole, i racconti); così, all’interno di un determinato complesso cultuale, è possibile distinguere l’insieme delle azioni codificate che la tradizione prescrive come atti di culto, dall’insieme di racconti ugualmente tradizionali che illustrano la fondazione mitica di quel culto riferendosi alle vicende di un eroe, di un dio, ecc.
Non di rado il rito costituisce una ripetizione – codificata secondo norme ben precise – dell’evento che il mito tramanda come fondativo. Questa associazione del mito e del rito ha fatto sì che alcuni storici delle religioni (specialmente fra XIX e XX secolo) operassero una sistematica riduzione del primo al secondo: il mito non sarebbe altro che un racconto ideato per giustificare lo svolgimento e le regole del rito; laddove il mito è vario e mutevole, il rito mantiene una stabilità che ne farebbe, secondo tale prospettiva, un testimonio incomparabilmente più fedele e informativo.
Oggi tale linea di pensiero non gode più di molta fortuna: non solo la corrispondenza di mito e rito risulta spesso troppo varia e articolata per prestarsi a un procedimento di riduzione sistematica dell’uno all’altro (esistono riti senza miti e miti senza riti: tanto il mito quanto il rito si prestano, autonomamente, a una pluralità di funzioni sociali, ideologiche, ecc.), ma il rito stesso è da vedere come una realtà complessa dal punto di vista dei significati che convoglia, che non può essere ricondotta a una sorta di ‘pura prassi’ (magari ispirata a semplice ‘immaginazione primitiva’ o a originari intenti ‘magici’) di cui il mito costituirebbe poi la ‘razionalizzazione’ teologica e la giustificazione a posteriori.
In questo senso il rito può essere descritto innanzitutto come insieme di gesti dotati di un valore significante, che prevedono come condizione preliminare lo scioglimento della condotta rituale da ogni finalità pratica (il rito avviene sempre in una ‘cornice’ spaziale o temporale che lo isola dai gesti profani o dai comportamenti quotidiani: eventuali fini pratici non sono esclusi, ma risultano secondari) e che sono riconosciuti come validi da una comunità: quest’ultimo aspetto è fondamentale, perché esso distingue il rito, che è sempre pubblico o ratificato da regole pubbliche (fosse anche all’interno di una comunità ristretta o di una setta), da quei comportamenti che la psicopatologia definisce ‘rituali’ – per esempio in relazioni a certe nevrosi ossessive – solo perché ripetitivi, stereotipati e apparentemente del tutto irrazionali (il che non significa, beninteso, ‘immotivati’).
Molte analisi recenti del rito tendono, da una parte, a porne in relazione la complessa realtà con i risultati dell’etologia e degli studi sul comportamento animale, dall’altra a valutare con attenzione tutte le metamorfosi che un rito (al di là della sua tendenza alla stabilità e alla conservazione) può subire dinanzi a mutate condizioni sociali o storiche.
Terminologia
Né il greco né il latino offrono esatti corrispondenti del nostro «rito». In Grecia si parla spesso di teleté, ma con riferimento a riti e cerimonie di carattere iniziatico e non di rado opposti alla religione tradizionale; il termine maggiormente in uso è il generico hierá, letteralmente «cose sacre» (cfr. il lat. sacra). A Roma si parla poi altrettanto genericamente di caerimonia e ritus, che sottolineano soltanto la conformità di determinati comportamenti cultuali alla tradizione e alle sue regole (non a caso il greco dice spesso nomizómena, «atti o comportamenti tradizionali»).
Anche al di là del problema terminologico, è chiaro che gli studi sui riti antichi sono resi ardui, in molti casi, dall’assenza di una documentazione dettagliata: raramente le nostre fonti descrivono i riti con la ricchezza di particolari che si richiederebbe da uno storico delle religioni o da un antropologo; e in ogni caso, la semplice descrizione appare già interpretazione (e spesso razionalizzazione) rispetto ai dati che sarebbero forniti da un’osservazione diretta (che a sua volta costituirebbe senza dubbio una nostra ‘interpretazione’, ma sulla base di categorie concettuali più facilmente controllabili).
Forme del rito antico
Senza scendere nei dettagli, si può dire che una delle principali forme assunte dal rito nell’antichità greca e romana è senza dubbio il sacrificio: inteso come metodo fondamentale di comunicazione con il divino, il sacrificio può prendere l’aspetto di un sacrificio animale cruento (il cui ‘mito di fondazione’ appartiene alle vicende di Prometeo ed è narrato da Esiodo, Teogonia, 535-616) o di un sacrificio consistente più in genere nell’offerta agli dèi di altre sostanze alimentari (il vino nella cosiddetta libagione, ma anche l’olio, il latte, il miele o prodotti a base cereale, non di rado associati al sacrificio animale). Nel suo tipo più diffuso, il sacrificio animale prende la forma di una ‘spartizione’ della carne (specialmente bovina e ovina, ma non solo) fra uomini e dèi: dunque una sorta di banchetto, in cui le parti spettanti agli uni e agli altri sono scrupolosamente determinate; un complesso sistema di gesti rituali regola l’atto fondamentale del sacrificio, l’uccisione dell’animale (che gli antichi, con vari artifici, tendevano a rappresentare come una scelta ‘consensuale’ da parte della vittima); del tutto marginali, nella realtà antropologica greco-romana, appaiono i sacrifici umani, di cui pure il mito e certe pratiche cerimoniali serbano traccia.
Tali sacrifici (riti cruenti) conoscono diversi svolgimenti secondo i luoghi e i tempi, ma una definizione generale comprende l’insieme di tutti i gesti che precedono (purificazioni, allestimento dell’apparato rituale, cortei, ecc.) e seguono (altre purificazioni, raccolta dei resti, ecc.) il gesto fondamentale dell’uccisione e della consumazione della vittima, cui partecipa la comunità interessata dal rito. Svariate erano le occasioni del sacrificio: esso non costituiva soltanto un rito autonomo, da tenersi in determinate occasioni festive o cultuali, ma si accompagnava – come un isolato gesto rituale – a cerimonie di diverso tipo: dalle purificazioni alle iniziazioni di ogni sorta.
Accanto alla categoria dei ‘riti cruenti’ e delle ‘offerte’ (‘riti votivi’), grande importanza va riconosciuta ad altre tipologie rituali: dai riti di lustrazione (purificazione) che potevano interessare singoli individui o intere comunità, ai frequentissimi riti di iniziazione (detti ‘riti della soglia’) che accompagnavano ogni sorta di mutamento di stato (nel tempo e/o nello spazio) da parte di un singolo individuo (la nascita, l’accesso all’età adulta, il matrimonio, l’ingresso in una comunità religiosa o professionale, la morte, ecc.) o di una comunità (la pace, la guerra, ogni forma di ‘scadenza’ cronologica, ecc.). È certo quest’ultima categoria quella che manifesta – anche nelle società occidentali contemporanee – la più lunga durata. Appare in ogni caso evidente come, all’interno di coerenti ‘complessi rituali’, sia possibile isolare solo per astrazione il rito appartenente all’una o all’altra categoria.
[Federico Condello]
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