Pace e diritti nell’arena olimpica

di Nicola Sbetti 

Le Olimpiadi senza pace

Il 9 agosto 2024, in una delle ultime conferenze stampa prima della fine dei Giochi olimpici di Parigi il presidente del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), Thomas Bach, ha tanto candidamente quanto pragmaticamente ammesso che i Giochi Olimpici non possono «creare la pace», ma al massimo «creare una cultura di pace».

Queste parole hanno un peso specifico importante poiché (oltre a confermare il dato oggettivo per cui lo sport, pur non essendo irrilevante, resta un elemento periferico per la politica internazionale) si distanziano da una certa retorica ideologica che aveva caratterizzato il movimento olimpico nel passato. E del resto, proprio a Parigi 2024, l’idea che lo sport potesse far fermare le guerre si è confermata essere nulla più di una mera illusione.

La «tregua olimpica» moderna è ispirata all’antica clausola per cui gli elleni dovevano contribuire al buon svolgimento delle loro olimpiadi garantendo una immunità agli atleti, perché potessero raggiungere incolumi e senza ostacoli Olimpia. Dal 1992 CIO e ONU hanno voluto rinnovare formalmente questa tradizione: una «tregua» è indetta – a ogni edizione dei giochi, invernali ed estivi – per il periodo che va da una settimana prima dei Giochi olimpici a una settimana dopo quelli paralimpici. Nel 2024 l’iniziativa si è rivelata un totale fallimento. Non è stata firmata da Siria e Russia; poi è stata violata da Paesi firmatari, senza che ciò portasse a sanzioni. È il caso di Israele, che oltre a proseguire le operazioni militari a Gaza (la Palestina pur essendo uno «Stato osservatore non membro all’ONU» è invece pienamente riconosciuta dal CIO), ha lanciato missili in territorio yemenita e libanese, ma persino dell’Ucraina, che per la prima volta è entrata in territorio russo con il blitz nella regione di Kursk proprio durante la tregua olimpica.

 

Senza pace, le Olimpiadi

Se però rovesciamo il nostro punto di osservazione, già il semplice fatto che in un’estate caratterizzata da conflitti asimmetrici in Medio oriente e da una guerra convenzionale fra Russia e Ucraina i Giochi olimpici e paralimpici si siano potuti svolgere regolarmente rappresenta un successo tutt’altro che scontato.

Se ciò è stato possibile, è dovuto anche al fatto che il CIO (e più in generale tutte le istituzioni sportive) fanno appello al principio, tanto ipocrita quanto essenziale, della neutralità dello sport dalla politica. Si tratta di un principio ipocrita in quanto è assolutamente impossibile lasciar fuori la politica da un evento la cui struttura riflette l’idea di un mondo diviso in Stati nazione in competizione fra loro. Ma allo stesso tempo la pretesa, quantomeno formale, di apoliticità consente di creare un clima che permette gli incontri anche fra rappresentanti di Paesi le cui relazioni sono anche aspre. La faccenda diventa ovviamente più complicata quando a competere sono rappresentanti di Paesi nemici apertamente in guerra fra loro; in quei casi boicottaggi e proteste finiscono per essere inevitabili.

 

Le regole flessibili della diplomazia olimpica

Comunque l’obiettivo ultimo delle organizzazioni sportive come il CIO resta sempre quello di sopravvivere e prosperare. La difesa dei propri valori, che nel tempo si sono adattati ai cambiamenti sociali e ai rapporti di forza, rimane quindi sempre secondaria alla priorità di far svolgere le Olimpiadi. Questo aiuta a capire perché ai Giochi olimpici e paralimpici di Parigi le delegazioni russa e bielorussa erano escluse. Da un lato la motivazione formale era ineccepibile: i due paesi, invadendo l’Ucraina il 24 febbraio del 2022, avevano violato la tregua olimpica indetta per i Giochi invernali di Pechino. Dall’altro il motivo reale della sanzione, sia pur applicata a malincuore visto che andava a indebolire l’universalità del movimento olimpico, stava proprio nella necessità di evitare i boicottaggi e le proteste degli atleti ucraini e dei loro alleati che avrebbero potuto mettere a repentaglio i Giochi del 2024, esattamente come negli ultimi giorni di febbraio 2022 tutto il sistema sportivo aveva rischiato di restare paralizzato se non fossero state messe in atto le sanzioni. Insomma, l’esclusione di Russia e Bielorussia non è stata altro se non una presa d’atto dei rapporti di forza internazionali esistenti, che però è stata giustificata pubblicamente, in nome del principio di neutralità, come la reazione alla violazione di una sanzione sportiva.

Più in generale, comunque, il CIO ha interpretato il principio di neutralità in maniera attiva e flessibile. Per esempio, attraverso colloqui con i rispettivi comitati olimpici nazionali e investimenti in vista della ricostruzione, si è assicurato che gli atleti ucraini evitassero eclatanti prese di posizione contro quei pochi atleti russi e bielorussi a cui è stato concesso di gareggiare individualmente come neutrali dopo aver dimostrato di non far parte di gruppi sportivi militari e di non aver mai preso pubblicamente posizione in favore dell’invasione. Interviste e messaggi sui social network potevano essere tollerati ma non prese di posizione su campi di gara. Addirittura ad Anastasiia Rybachok è stato imposto di coprire la scritta «Sono ucraina» sulla propria canoa.

Lo stesso modus operandi c’è stato con i palestinesi, i quali se da un lato hanno sfruttato la visibilità olimpica per rivendicare pubblicamente il diritto a esistere del proprio Stato, dall’altro si sono ben guardati dall’attaccare esplicitamente Israele. Decisivo, in questo senso, si è rivelato l’incontro in aprile fra Bach e il presidente del Comitato olimpico palestinese nonché membro di Fatah, Jibril Rajoub. Significativamente tutti gli otto atleti della delegazione palestinese erano residenti fuori da Gaza, all’estero o in Cisgiordania. Per qualità sportive avrebbe potuto esserci anche il sollevatore di pesi Mohammed Hamada. Già campione del mondo under 20 di sollevamento pesi, era riuscito a sopravvivere all’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano e, dopo qualche mese, a trovare rifugio all’estero dove aveva persino ripreso ad allenarsi. Non è chiaro però se la sua mancata presenza sia dovuta ad un infortunio o alla sua vicinanza ad Hamas.

 

E i diritti?

L’efficace lavoro preventivo svolto dal CIO con ucraini e palestinesi non ha però del tutto evitato le proteste sui campi di gara. In questo senso le due principali protagoniste sono state entrambe afghane e hanno condiviso un messaggio politico tutto sommato coerente con i cosiddetti «valori olimpici». Il 2 agosto dopo aver corso la propria batteria dei 100 metri Kimia Yousufi ha mostrato il retro del proprio pettorale alle telecamere in cui aveva scritto: «educazione, sport, i nostri diritti». Sette giorni più tardi la b-girl (ballerina di break dance) Manizha Talash, ha finito la propria performance indossando un mantello blu con la scritta «libertà per le donne afghane» e per questo è stata squalificata.

Come già avevano dimostrato Tommie Smith e John Carlos con il loro celebre pugno chiuso a Città del Messico nel 1968, per essere efficace un messaggio politico veicolato in un’arena sportiva deve essere sia vincente sia conflittuale. Le modeste prestazioni sportive e il messaggio condivisibile per tutti eccetto i talebani promosso da Yousufi e Talash ne ha limitato la portata. Tuttavia proprio la squalifica a Talash ha paradossalmente permesso al suo messaggio di essere molto più virale e potente di quello della collega.

Vincente e divisiva è stata invece Imane Khelif, la pugile algerina che suo malgrado è diventata oggetto di una più ampia guerra culturale che poco aveva a che fare con lo sport, il quale tuttavia, nonostante l’introduzione in alcune discipline come il nuoto artistico e l’equitazione della categoria «open», fatica a uscire dal binarismo uomo/donna. Le false accuse a Khelif di essere una transessuale hanno peraltro messo in secondo piano il fatto che si tratta della prima medaglia d’oro olimpica per una pugile africana o araba.

 

La parola ad atlete e atleti

In questa estate di sport e non soltanto in occasione delle Olimpiadi (basti pensare, durante gli Europei di calcio maschili, alle dichiarazioni dei giocatori della nazionale francese di calcio Markus Thuram e Kylian Mbappé riguardo alle elezioni politiche che si svolgevano nel loro Paese), atleti e atlete hanno dimostrato una grande vitalità nel voler esprimersi su temi politici e sociali. Talvolta, quasi senza volerlo e riportando semplicemente il loro stato d’animo, sono risultati quasi rivoluzionari. In questo senso le interviste, diventate virali, a Benedetta Pilato e a Rigivan Ganeshamoorthy possono offrire davvero molteplici spunti didattici.

Questa vitalità, che contiene sicuramente degli elementi originali, non è però una novità assoluta. Nel corso della storia sono innumerevoli gli episodi che potremmo ricondurre al concetto di «attivismo degli sportivi». Quello che è cambiato semmai è l’eco mediatica e gli strumenti con cui si sono potuti condividere questi messaggi. Se ai tempi della carta stampata e della radio era essenziale una mediazione giornalistica, e l’avvento della televisione aveva offerto spazi di libertà, ora con il web 2.0 e i social network gli atleti hanno la possibilità di imporre direttamente la propria narrazione, dovendo però fare i conti con una crescente frammentazione delle audience.

Provare a ricostruire in classe, attraverso i giornali del passato, come è cambiata la narrazione e la narrativa degli atleti nelle diverse edizioni olimpiche può essere un interessante esercizio didattico per cogliere le continuità e i cambiamenti delle nostre società.

 

Per approfondire

Sulla tregua olimpica proposta dal CIO: https://unric.org/it/la-tregua-olimpica/

Le dichiarazioni di Thomas Bach si possono ascoltare qui: https://x.com/iocmedia/status/1821911099131806207

Le interviste a Benedetta Pilato e a Rigivan Ganeshamoorthy sono disponibili sui canali online della Rai: https://www.rainews.it/video/2024/07/olimpiadi-parigi-2024-intervista-benedetta-pilato-quarta-100-rana-per-un-cemtesimo-video-cc8234ff-5e94-48ee-bdbe-49dab783c090.html

https://www.rainews.it/video/2024/09/paralimpiadi-intervista-a-rigivan-ganeshamoorthy-prima-medaglia-oro-degli-azzurri-863ca1d9-4ba0-4e0e-b0cd-11071ec5da85.html

Tra le letture segnaliamo:

Stefano Bastianon, Corrado Del Bò, La neutralità dello sport. Un dilemma contemporaneo fra politica, etica e diritto, Carocci, Roma 2023.

Umberto Tulli, Breve storia delle Olimpiadi Lo sport, la politica da de Coubertin a oggi, Carocci, Roma 2012

Mauro Valeri, Stare ai Giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni, Odradek, Roma 2012.

Elisa Virgili, Olimpiadi. L’imposizione di un sesso, Mimesis, Milano-Udine 2012.

Infine, di Nicola Sbetti:

(con Riccardo Brizzi) La diplomazia del pallone. Storia politica dei Mondiali di calcio (1930-2022), Le Monnier, Milano 2022: https://www.mondadorieducation.it/catalogo/la-diplomazia-del-pallone-0072099/

(con Umberto Tulli) La fine di una reciproca negazione: riflessioni sullo sport nella storia delle relazioni internazionali, «Ricerche di Storia Politica», 2, 2016, pp. 193-202.

Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atene a Londra 1896-2012, Le Monnier, Firenze 2012: https://www.mondadorieducation.it/catalogo/giochi-di-potere-0037400/

 

L’autore

Nicola Sbetti insegna Storia dell’educazione fisica e dello sport e Sport and International Politics in Europe presso l’Università di Bologna. Con Mondadori Education, sotto il marchio Le Monnier, ha pubblicato due monografie: Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atene a Londra 1896-2012 e (con Riccardi Brizzi) La diplomazia del pallone. Storia politica dei Mondiali di calcio (1930-2022) (2022) (vedi anche «Per approfondire»).