Il diossido di carbonio che non vedi: i fumi invisibili dell'impatto ambientale

di Nicole Ticchi
  • Obiettivo: 13 - Lotta contro il cambiamento climatico
  • Materie: Chimica, Scienze della terra

Con la COP26 appena conclusa e gli ultimi dieci anni di intensa attenzione mediatica, il riscaldamento globale e il cambiamento climatico sono oggi emergenze prioritarie anche per la scienza. Gli strumenti e i dati a nostra disposizione sono aumentati a dismisura e anche l’approccio culturale alla valutazione dell’impatto ambientale è cambiato, maturando assieme alla scienza stessa e portando a nuove soluzioni.

Le emissioni di diossido di carbonio sono il parametro forse più conosciuto e tirato in causa quando si cercano i fattori scatenanti per l’innalzamento della temperatura globale. Sappiamo infatti che i gas serra hanno una forte responsabilità in questo processo, ma dovremmo a questo punto anche sapere che il diossido di carbonio condivide questo ruolo con altri gas.
Secondo il Protocollo di Kyoto, uno dei più importanti strumenti giuridici internazionali volti a combattere i cambiamenti climatici, i sei gas ad effetto serra sono:

  • diossido di carbonio (CO2);
  • metano (CH4);
  • protossido di azoto (N2O);
  • idrofluorocarburi (HFC);
  • perfluorocarburi (PFC);
  • esafluoro di zolfo (SF6).

Alla stipula di questo protocollo di Kyoto, i paesi industrializzati riconosciuti come principali responsabili dei livelli di gas ad effetto serra presenti in atmosfera, si sono impegnati a ridurre le loro emissioni di gas ad effetto serra, nel periodo 2008-2012, di almeno il 5 % rispetto ai livelli del 1990. Come è possibile fare questo?

 

 

Visibile e invisibile

La difficoltà a adempiere ad un impegno di questo tipo si basa su molteplici fattori, primo tra i quali il fatto che non sono solo le emissioni visibili a costituire un problema. Siamo stati abituati culturalmente a considerare fonte di inquinamento quei settori o quegli oggetti da cui vedevamo fisicamente uscire un fumo nero, più o meno intenso: le auto, i motorini, le ciminiere delle fabbriche sono un esempio perfetto. tanto più che la stessa icona che rappresenta le industrie ancora oggi è ancora un edificio che emette fumo.
La situazione, però, rispetto a quanto poteva succedere nelle periferie londinesi del 1800 fino a metà del secolo scorso è molto cambiata e non sono più quelle le emissioni che dovrebbero preoccuparci. O almeno non solo. La maggior parte di quello che esce dalle industrie è vapore acqueo e anche le auto sono sempre più progettate per un basso rilascio di particolato e di gas tossici.
Occorre quindi andare a indagare su quelle emissioni che non vediamo ma ci sono e fanno parte di tutta la filiera di operazioni che vengono svolte per arrivare alla produzione di beni di consumo, servizi e trasporti.



Per fare questo e per essere sicuri di non perdere nulla nella lista dei conti, la scienza ha messo a punto sistemi per calcolare l’impronta che lasciamo, ovvero per quantificare l’impatto di ogni singola azione, processo o prodotto sull’ambiente. Per farlo e per dare un’informazione quantitativa, ci si riferisce all’emissione di gas serra o al consumo di risorse, come ad esempio l’acqua. Per quanto riguarda il primo parametro, si parla di impronta del carbonio (in inglese Carbon Footprint) e serve a calcolare l’impatto delle nostre emissioni in termini di CO2 equivalente. Si tratta di una unità di misura che esprime l’impatto di ciascun gas a effetto serra in termini di quantità di CO2: in questo modo possiamo calcolare con un solo valore l’impatto ambientale che un’attività causerebbe emettendo molti e diversi gas serra, trasportandoli nell’equivalente quantità di anidride carbonica emessa dall’insieme dei gas serra. Il confronto diventa quindi più semplice e immediato.

Per ottenere il valore espresso in CO2 eq si moltiplica la massa del gas per il suo potere climalterante, in inglese definito Global Warming Potential (GWP). Quello del metano, ad esempio, è 28, mentre quello del protossido di azoto è 265. Quindi, mentre una tonnellata di metano corrisponde a 28 tonnellate di CO2eq, una tonnellata di protossido di azoto corrisponde a 265 tonnellate di CO2eq.

Questa è la parte più semplice. Meno semplice è invece capire quali sono tutti i processi che potrebbero comportare emissioni e che influiscono quindi sull’impronta del carbonio. Questo richiede un grosso sforzo di analisi e organizzazione delle informazioni, che permettano anche di distinguere le emissioni dirette da quelle indirette.

Pensereste mai al vostro smartphone come responsabile di emissioni? O a voi stessi? Eppure, anche noi produciamo CO2, continuamente, per il solo fatto di esistere. Oggi sono disponibili calcolatori in grado di fornire informazioni sull’impronta del carbonio di molte attività che svolgiamo quotidianamente, delle abitudini e dello stile di vita: alimentazione, viaggi, uso dei device elettronici e anche il lavoro che facciamo, hanno tutti una loro impronta. Ma il fumo, se ci fate caso, non si vede. E non solo perché il diossido di carbonio è incolore, ma perché sono tutte emissioni che stanno a monte e in parti del processo che difficilmente potremmo vedere.





L’impronta inaspettata: informatica e dintorni

Avete mai visto uscire fumo da un computer? A parte quando si surriscalda e fonde, ovviamente, ma per fortuna non avviene così spesso.

Ci hanno sempre detto, negli ultimi 20 anni, che era meglio evitare di stampare le mail, che passare ai libri in formato elettronico è più green e che la digitalizzazione di molte delle operazioni sarebbe stata sicuramente vantaggiosa per tutti. E infatti lo è: ha brillantemente risolto molti problemi, ha velocizzato molte operazioni e ha permesso di disporre online e in tempo reale di infinite risorse e conoscenze, tanto che oggi non potremmo più farne a meno.

Potrebbe apparire una rivoluzione a costo zero, fatto salvo per la spesa relativa agli strumenti fisici che ci servono e la corrente elettrica. Ma è davvero così? I dispositivi elettronici che circondano la nostra vita, in modo visibile o invisibile, ad uno sguardo superficiale possono apparire come privi di effetti sull’ambiente. Quando si accende un computer o uno smartphone non si vede fumo, né polvere, non c’è cattivo odore. Ma se andiamo a contare tutti i passaggi intermedi che permettono di totalizzare l’impronta del carbonio, il conto si fa lungo e salato.

Tutti i dispositivi hanno effetti sull’ambiente: contribuiscono al riscaldamento globale, all’inquinamento e al depauperamento delle risorse limitate. L’informatica e l’elettronica, ad esempio, necessitano di elementi chimici molto particolari che vengono estratti non senza fatica e con un alto impatto ambientale. Una buona parte dell’impatto ambientale si ha nell’estrazione delle materie prime e nella fabbricazione dei componenti, che comporta anche un forte utilizzo di energia elettrica. Costruire un dispositivo elettronico richiede quindi una notevole quantità di combustibili fossili, materiali, minerali rari e, sorpresa, anche acqua. E poi? I dispositivi finali vengono trasportati per lunghe distanze, in imballaggi complessi fatti apposta per proteggere i delicati componenti, che andranno smaltiti. Una volta entrati nelle nostre case, negli uffici e nei centri di calcolo, poi, server, computer, monitor, data center e relativi dati consumano una grande quantità di energia nel loro funzionamento: e la produzione di questa energia, oggi, è ancora causa di produzione di CO2.

Anche lo smaltimento dei dispositivi che non usiamo più, a fine vita, ha un forte impatto ambientale: se i materiali non sono recuperati e gestiti correttamente possono rappresentare un grosso problema.

I dispositivi elettronici e le infrastrutture informatiche consumano grandi quantità di elettricità, contribuendo così alle emissioni di gas serra. Se nel 2008 il settore informatico ha contribuito per il 2% delle emissioni globali di CO2, nell’ultimo decennio tale contributo è triplicato e si stima che nel 2040 si arriverà al 14%. Ad aumentare tale impatto sono soprattutto gli smartphone, dato il tasso di crescita e la rapidità di sostituzione. 

 

Una visione più allargata

L’impatto ambientale deve essere considerato lungo l’intero ciclo di vita. Per questo oggi è sempre più diffuso il Life Cycle Assessment (LCA), l’analisi del ciclo di vita: un metodo che serve a individuare e quantificare gli impatti ambientali complessivi di un prodotto dalla “culla alla tomba”, ovvero da quando nasce a quando viene smaltito. Si parte dall’estrazione di materie prime e si arriva alla produzione, il trasporto, l’utilizzo del prodotto e il suo fine vita.


Buttare via un oggetto, infatti, non segna la sua fine e soprattutto non la segna per l’ambiente. Smaltire un oggetto comporta emissioni e, se prendiamo il caso dei dispositivi elettronici, vediamo che anche il suo fine vita ha un forte impatto ambientale. I componenti di cui sono fatti contengono molte sostanze tossiche e, se gettati nelle discariche o non trattati adeguatamente, possono provocare danni all’ambiente e alla salute. 


Proprio per questo oggi si parla tanto di riciclo e recupero di risorse e di ripensare ai rifiuti come miniere preziose. Ma si parla anche di ripensare all’intero ciclo di vita del prodotto proprio a partire da come dovranno essere gestiti gli scarti. Per fare questo serve quindi conoscenza su tutti i parametri, le emissioni e i passaggi che riguardano un prodotto, per poter confrontare tra loro diverse strategie e capire quale fra queste è effettivamente la più sostenibile.

Ormai l’LCA si adotta per tutti i settori, anche all’ambito alimentare, farmaceutico, automobilistico: anche per i viaggi è possibile immaginare questo tipo di attività. Quello che si ottiene alla fine è un valore che tiene conto di tutte le variabili, come emissioni e utilizzo di risorse ambientali, tra cui l’acqua.
Può apparire come un sistema complesso e troppo sofisticato ma, nonostante un vecchio detto dica che “nessuna pianificazione, per quanto accurata, potrà sostituire una bella botta di fortuna”, è ora di iniziare a usare questo approccio sul serio. La fortuna, come dimostrano i dati, non ci ha assistito abbastanza nella lotta al riscaldamento globale.

 

Box attività
Facciamo un esempio?



Pensa a 3 attività che svolgi durante il giorno.
costruisci uno schema per ognuna di esse dove elenchi tutti i passaggi necessari per portare a termine l’attività e prova ad individuare quale di queste comportano emissioni di gas.

Ora fai la stessa cosa con 3 prodotti che usi quotidianamente.
Come sono stati fatti, a partire da cosa, con quali processi? Queste sono alcune delle domande che potresti porti. Ma la lista non finisce qui!