Che cosa c’entra il genere con la scienza?
di Edwige Pezzulli
- Obiettivo Primario: 5 - Parità di genere
- Materia: Biologia
Compito della scienza è quello di rappresentare il mondo, di costruire modelli in grado di descrivere i fenomeni naturali e di prevederne l’andamento nel tempo. Ma pensare che per questo motivo sia una struttura neutrale, potrebbe rappresentare un grave errore.
Che cosa c’entra il genere con la scienza?
Quante volte abbiamo sentito parlare della scienza come di un insieme di verità imparziali, che prescindono dalle persone che la costruiscono e dal contesto nel quale si sviluppa? Se ci pensiamo, però, anche la scienza è costituita da individui e, come qualsiasi altro prodotto umano, non può che dipendere dal contesto sociale, culturale, storico e geografico in cui è immersa, assumendo significato nelle pratiche quotidiane dei gruppi di ricerca e nell’interazione con il mondo circostante.
Sempre meno neutrale
Le discussioni attorno alla presunta neutralità della scienza sono state innumerevoli e hanno attraversato il Novecento nelle diverse aree del sapere. Nel famoso testo del 1976, l’ape e l’architetto, Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio affermano che “l’idea di autonomia delle teorie scientifiche rispetto alla società non ha fondamento nella realtà”. Secondo i quattro fisici de La Sapienza di Roma, infatti, la cultura e la società in cui la scienza si costruisce condizionano inevitabilmente il tipo di scienza che verrà costruita, e società differenti daranno vita a scienze differenti. “Entra in crisi”, scrivono gli autori, “la concezione che considera la scienza e la tecnica strumenti neutrali di progresso della società, indipendentemente dai rapporti sociali”.
Dieci anni dopo, il filosofo Bruno Latour e il sociologo Steve Woolgar pubblicano Laboratory Life: The Construction of Scientific Facts, nel quale arrivano ad affermare che quello che chiamiamo scienza, il processo di costruzione della conoscenza e la forma stessa del pensiero scientifico, altri non sono che il prodotto del contesto in cui ci troviamo e rappresentano quindi delle semplici costruzioni sociali.
Il paradigma di una scienza non neutrale, condizionata dai valori e dalle dinamiche interne alla società e alla comunità scientifica nelle quali si sviluppa, è divenuto via via sempre più condiviso, offrendo un’alternativa alla lettura positivista e scientista, che nutriva una assoluta e incondizionata fiducia nella scienza, considerata unica vera forma di conoscenza obiettiva e neutrale.
Impronte umane nella scienza
Nella seconda metà del 1700 sono state osservate le prime piante con la capacità di catturare alcuni insetti. Il naturalista e botanico John Ellis battezzò queste forme di vita piante carnivore, descrivendole come trappole per topi in miniatura. Per confrontarsi sulla sua scoperta, Ellis spedì uno schema dettagliato del meccanismo di intrappolamento delle piante carnivore a Linneo, uno dei più grandi naturalisti dell’epoca e autorità indiscussa in tema di botanica. La trappola si azionava rapidamente in presenza di insetti, e alla sua riapertura l’animale non c’era più, come fosse stato digerito dalla pianta.
In presenza di un’osservazione così autoevidente, la storia delle piante carnivore sarebbe potuta terminare qui. Invece, il 16 ottobre 1768 Linneo rispose a Ellis che l’idea di una pianta in grado di intrappolare e uccidere degli insetti era assolutamente inaccettabile. Per giustificare quindi l’osservazione, il botanico cercò spiegazioni più complesse e parziali, come il fatto che queste piante fossero semplicemente sensitive, ciò in grado di reagire se stimolate, o che la cattura degli insetti fosse del tutto casuale, non finalizzata quindi al nutrimento della pianta.
Il motivo di questa reticenza ci viene raccontato da Linneo stesso, citando il libro della genesi: dio ha creato le piante affinché gli animali e gli esseri umani possano nutrirsene. Una pianta carnivora, quindi, rappresenterebbe una sovversione all’ordine divino delle cose.
I valori di Linneo e dell’epoca erano infatti basati su delle gerarchie di esistenze molto rigide e le piante stazionavano sul gradino più basso di questa piramide. Dovremo così aspettare più di 100 anni, il 1875, per leggere finalmente di queste piante come insettivore, a opera del più coraggioso Charles Darwin.
Tracce di genere nel sapere scientifico
Se quindi la scienza è influenzata dalla cultura delle persone che la costruiscono, il fatto che questa sia stata per secoli portata avanti da individui culturalmente, economicamente e socialmente molto simili tra di loro può aver giocato qualche ruolo nel sapere prodotto. In particolare gli stereotipi e i pregiudizi di genere delle comunità scientifiche, costituite a lungo da uomini occidentali, bianchi, di mezza età ed economicamente abbienti, hanno condizionato storicamente non solo le condizioni di vita delle comunità scientifiche, ma anche gli assunti di base, le ipotesi, l’interpretazione dei risultati e, quindi, il sapere scientifico stesso.
Uno degli esempi più eclatanti è il caso della fecondazione in biologia. Per molto tempo, la descrizione di questo processo ha visto l’ovulo venire schematizzato come elemento passivo - una semplice barriera fisica in attesa dello spermatozoo. Lo spermatozoo, invece, veniva descritto come il solo responsabile attivo della fecondazione, capace di farsi strada lentamente all’interno dell’ovulo grazie all’azione meccanica del suo flagello.
Per sviluppare un contraccettivo che agisse direttamente sullo sperma, alla fine degli anni ‘80 un gruppo di ricerca della John Hopkins University si è posto delle domande sulla forza meccanica del flagello degli spermatozoi scoprendo, con gran sorpresa, che la loro spinta in avanti è estremamente debole. La spinta laterale di queste cellule, che comporterebbe un loro slittamento lungo la superficie dell’ovulo, è invece di dieci volte superiore al loro movimento in avanti. Da queste osservazioni è risultato evidente che l’ovulo dovesse giocare un qualche ruolo attivo nel processo di fecondazione, che ora sappiamo essere infatti un atto cooperativo: grazie a dei recettori sulla sua superficie, l’ovulo attira lo spermatozoo che, da solo, non riuscirebbe a penetrarlo.
Le osservazioni stesse del fenomeno della fecondazione e degli esperimenti correlati si sono quindi rivelate parziali: chi guarda un fenomeno lo fa focalizzandosi su alcune precise osservabili, trascurandone altre e limitando in partenza le possibili interpretazioni, perché l’occhio di chi guarda è di per sé limitato e parziale. Nel caso specifico della fecondazione, è possibile che alcuni stereotipi di genere degli scienziati, per esempio quelli riguardanti ciò che è femminile - maggiormente passivo - e ciò che è maschile - legato invece all’idea di attività ed efficacia - siano state determinanti nell’osservazione e nell’interpretazione degli esperimenti legati a questo processo?
Più soggettività per l’oggettività
La parità di genere nella scienza non rappresenta quindi una semplice questione legata a dinamiche di giustizia sociale, ma intacca profondamente la struttura, i metodi e i contenuti della scienza stessa. Ogni persona di scienza è prima di tutto un individuo con un proprio sistema di valori, un'esperienza umana determinata da credenze, percezioni, deliberazioni, desideri. L’oggettività e la neutralità, quindi, sembrerebbero delle qualità che nessuna persona (di scienza o meno) è in grado di raggiungere.
Se questo è però vero su scala individuale, potrebbe non esserlo a livello comunitario: la scienza, infatti, è costituita da gruppi di persone che cooperano, che si confrontano, che costruiscono un sapere comune. Se ognuno di questi individui è contaminato dal proprio vissuto e porta inevitabilmente con sé il suo specifico punto di vista, una strada verso l’oggettività potrebbe passare dalla costruzione di comunità scientifiche il più diversificate e plurali possibili. Punti di vista differenti, infatti, rappresentano una ricchezza che contribuisce a costruire un’immagine del mondo e una descrizione della realtà più articolata, un puzzle collettivo più completo, fatto di innumerevoli tasselli unici, distinti e differenziati - che è quanto di più vicino all’oggettività possiamo immaginare.