Le parole e le cose tra verità giudiziaria e verità storica

di Miguel Gotor

Cominciare dalle definizioni

In Italia gli anni Settanta sono stati anche, ma non solo, un periodo di violenza politica, di lotta armata e di stragismo che hanno stretto come una tenaglia l’ancora giovane e fragile democrazia del Paese rischiando di spezzarla.

È opportuno offrire delle definizioni il più possibile univoche di questi tre concetti, troppo spesso utilizzati in modo superficiale o addirittura sbagliato.

 

La «violenza politica»

Per violenza politica si intendono delle azioni in grado di produrre un impatto fisico, ma anche psicologico, che vengono inflitte a un’altra persona o a un gruppo, i quali non sono più considerati dei semplici avversari, ma dei veri e propri nemici. La violenza politica, difensiva o d’attacco, si esprime soprattutto attraverso l’aggressione fisica, ma può essere accompagnata anche dall’utilizzo di strumenti contundenti (spranghe, catene, chiavi inglesi) che, seppure non impiegati con l’intenzione di uccidere, possono averi degli effetti mortali. Negli anni Settanta questo scenario è stato assai diffuso nelle scuole, nelle università e nelle piazze per decine di migliaia di giovani, lungo il duplice asse ideologico fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo: una storia sommersa e rimossa di scontri tra «rossi» e «neri», fatta di crani fracassati, ossa rotte, ferite, stati di coma, lunghe degenze e riabilitazioni che occupavano quotidianamente le cronache dei giornali.

 

La «lotta armata» (e il «Partito armato»)

Per lotta armata, invece, si intende un fenomeno che rappresenta un salto qualitativo rispetto alla generica violenza politica: l’idea che il conflitto politico debba condurre intenzionalmente all’annientamento del «nemico», mettendo quindi in conto di essere feriti o di morire e rischiando reati da ergastolo. La lotta armata, che ha interessato un’esigua minoranza di giovani italiani, si fa con le armi da fuoco e il più delle volte conduce alla scelta della clandestinità, anche se è stata frequente anche l’adozione di un modello «anfibio»: con il passamontagna calato mentre si sparava in manifestazioni o in occasione di un agguato, ma a viso aperto quando si riprendeva la vita di tutti i giorni. Gli obiettivi della lotta armata sono sempre selettivi – ossia scelti con oculatezza in ragione della funzione sociale e/o simbolica del bersaglio che si decide di colpire – con un’azione preparata a tavolino che richiede di raccogliere informazioni sulle abitudini della vittima designata e lunghi appostamenti.

Ovviamente, gli ambiti della violenza politica e quelli della lotta armata possono essere così contigui socialmente e politicamente sino al punto di sovrapporsi tra loro, ma le diverse intenzioni, modalità di azione e ragioni degli attori devono essere tenute distinte se si vuole comprenderle. Con il concetto di «Partito armato», utilizzato già negli anni Settanta dalla pubblicistica coeva e da alcuni protagonisti politici del tempo, si intende quella galassia di sigle che scelsero di fare politica scegliendo come strumento la lotta armata.

Nel «Partito armato», forze come le Brigate rosse e Prima Linea, di ispirazione marxista-leninista, conquistarono progressivamente un’egemonia, ma il fenomeno da studiare è molto più ampio, socialmente diffuso e meritevole di essere analizzato nella sua periodizzazione ed evoluzione interna. Anche a destra vi furono organizzazioni di ispirazione neofascista come i Nuclei armati rivoluzionari (Nar) e Terza posizione che praticarono la lotta armata.

 

Lo «stragismo»

Con il concetto di stragismo, che negli anni Settanta è stato un fenomeno che ha avuto una matrice ideologica neofascista, si intende un attentato organizzato con bombe che ha l’obiettivo di produrre un numero di feriti e di morti indiscriminato. Di solito le vittime erano colpite in quanto cittadini in modo casuale, mentre viaggiavano in treno o partecipavano a una manifestazione, ossia non in ragione della loro funzione sociale rivestita a titolo individuale. Si tratta di una strategia di tipo terroristico con scopi intimidatori e finalità destabilizzanti che possono procurare un’onda di paura nelle popolazioni civili con un conseguente riflesso d’ordine e richiesta di provvedimenti emergenziali.

 

«Verità giudiziaria», «verità storica»

I magistrati sono stati i primi soggetti che hanno ricostruito i delitti avvenuti negli anni Settanta mediante processi penali spesso caratterizzati da una durata pluridecennale. La verità giudiziaria raggiunta è certamente importante, ma non deve essere automaticamente sovrapposta alla verità storica. Infatti, la verità giudiziaria o formale di un fatto ha dei limiti ermeneutici ben definiti perché si deve formare sempre e soltanto dentro il processo e nel corso di esso, in base a una rigorosa selezione di elementi (documenti, testimonianze, perizie, esperimenti giudiziali) assunti a discrezione dei giudici come fonte di prova. Non necessariamente, quindi, coincide con la verità storica che dovrebbe invece fornire quadri esplicativi dei contesti in cui sono maturati determinati eventi seguendo un metodo storiografico che è diverso da quello giudiziario: per esempio, la storiografia non assolve né condanna e non libera né imprigiona, ma cerca di comprendere le cose come sono accadute. Inoltre, per sua natura il giudizio storico non è mai definitivo e irrevocabile, bensì sempre aperto e revisionabile alla luce di nuove acquisizioni di fonti e all’evoluzione delle interpretazioni che tendono a modificarsi con l’aumentare della distanza cronologica dai fatti e con gli inevitabili cambiamenti dei contesti socio-culturali da cui sono scaturite.

 

Il giudice e lo storico

Sia la verità giudiziaria sia quella storica sono accomunate dal fatto di avere un grado di approssimazione di tipo probabilistico, con la differenza che i limiti di indagine della prima sono determinati dalle regole processuali, mentre quelli della seconda dal metodo storico. La verità giudiziaria prodotta dal processo penale è sempre caratterizzata da un itinerario conoscitivo condizionato dalle norme che regolano l’ammissione, l’assunzione e la valutazione delle prove che inevitabilmente ne condizionano la ricerca.

Sussiste dunque una differenza sostanziale, tra il giudice e lo storico, su cui già ammoniva March Bloch nel libro l’Apologia della storia o il mestiere di storico (uscito postumo nel 1949): «Quando uno studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso. Al giudice tocca ancora emettere la sua sentenza». Lo storico, rispetto al giudice, non decide nulla, ma ha un duplice privilegio: quello di potersi formare un giudizio mediante una pratica di continua e autentica revisione critica e di rivendicare, diversamente dal magistrato, la primazia del problema da sviscerare rispetto alla documentazione da raccogliere per emettere una sentenza: all’inizio non c’è il documento, c’è sempre il problema, perché l’obiettivo dello storico non è giudicare, ma comprendere.

 

Per approfondire

Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, nuova ed., trad. di Giuseppe Gouthier, prefazione di Jacques Le Goff, Einaudi, Torino 2009 (prima ed. fr. 1949, nuova ed. critica 1993; la prima trad. it. è quella di Carlo Pischedda, Einaudi, Torino 1950; l’ultima ed. italiana è quella curata da Massimo Mastrogregori, trad. di Lorenzo Alunni, Feltrinelli, Milano 2024).

Carlo Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino 1991 (l’edizione più recente è quella Quodlibet, Macerata 2020)

Michele Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari, Laterza 2009

 

L'autore

Miguel Gotor è professore di Storia moderna presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Tra i suoi studi dedicati agli anni Settanta il più recente è Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve, 1966-1982 (Einaudi, Torino 2022, riproposto nel 2024 in edizione tascabile). Sono noti i suoi lavori su Aldo Moro: la curatela delle Lettere della prigionia (Einaudi, Torino 2008, dal 2009 disponibile in edizione tascabile); la monografia Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (Einaudi, Torino 2011, dal 2020 disponibile in edizione tascabile). Si segnalano ancora la curatela di alcuni scritti e discorsi di Enrico Berlinguer, La passione non è finita. Scritti, discorsi, interviste, 1973-1983 (Einaudi, Torino 2013) e una storia dell’Italia nel Novecento: L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (Einaudi, Torino 2019, dal 2020 disponibile in edizione tascabile). Con Mondadori Education è autore, insieme a Elena Valeri, del corso di storia Generazioni.