
Lavoro libero e lavoro coatto: una storia comune
Alessandro Stanziani, Le metamorfosi del lavoro coatto. Una storia globale, XVIII-XIX secolo, il Mulino, Bologna 2022 (prima ed. in francese 2020), 348 pp. Scheda a cura di Tommaso Scaramella.
Lavoro e libertà: ideologia, prassi, storiografia
Lo storico Alessandro Stanziani esamina il fenomeno del lavoro servile e forzato adottando un approccio di respiro globale. Il suo libro sulle «metamorfosi del lavoro coatto» analizza i cambiamenti registrati dalla condizione di schiavi e lavoratori all’interno di contesti geografici diversi, tra XVIII e XIX secolo, alla vigilia dell’abolizione della schiavitù. Tra i soggetti studiati compaiono i servi dell’Impero russo, i marinai e i salariati degli imperi francese e britannico, gli schiavi e migranti dell’Oceano Indiano. La ricerca di prima mano condotta dall’autore – su archivi giudiziari e delle istituzioni; testi e documenti relativi ai dibattiti intellettuali e politici; corrispondenze tra proprietari, signori, armatori, mercanti, compagnie concessionarie e autorità coloniali; petizioni di marinai, servi, domestici, schiavi e immigrati – giunge a un quadro originale sul tema. Il percorso proposto, infatti, non si limita a comparare singoli contesti, ma offre una visione autenticamente «globale» del problema, capace di mettere in discussione e riformulare le tradizionali concezioni storiografiche.
La storiografia ha spesso trattato il lavoro coatto come un fenomeno separato dal lavoro libero, quasi quest’ultimo fosse una «conquista» del capitalismo e della modernità occidentale. È vero che l’abolizione della schiavitù e del servaggio, accompagnata dalle relative elaborazioni sul piano teorico e ideologico, rappresenta uno spartiacque cruciale per la storia del lavoro, situato tra Otto e Novecento. Come osserva l’autore nell’Introduzione (p. 12), tuttavia, lavoro servile e lavoro libero condividono una storia comune. Il lavoro coatto è stato una componente pervasiva delle economie globali e continua a esserlo: non si può negare infatti che forme di coercizione lavorativa sono proseguite anche dopo tale spartiacque. E anche prima, le distinzioni tra libertà e coercizione erano spesso più sfumate nella pratica. Molto spesso il cosiddetto lavoro libero presentava forme più o meno evidenti di coercizione. Questo perché i confini tra libertà e coercizione sono determinati storicamente. In ogni epoca esistono diverse concezioni di libertà, determinate da fattori come lo status sociale e giuridico, la religione, i diritti riconosciuti e la trasmissione di essi alle successive generazioni. Di conseguenza è necessario cogliere le connessioni tra questi aspetti, e tra questi e la prassi effettiva, piuttosto che leggerli alla luce di una presunta evoluzione eurocentrica o occidentale.
La storiografia ha spesso trattato il lavoro coatto come un fenomeno separato dal lavoro libero, quasi quest’ultimo fosse una «conquista» del capitalismo e della modernità occidentale. È vero che l’abolizione della schiavitù e del servaggio, accompagnata dalle relative elaborazioni sul piano teorico e ideologico, rappresenta uno spartiacque cruciale per la storia del lavoro, situato tra Otto e Novecento. Come osserva l’autore nell’Introduzione (p. 12), tuttavia, lavoro servile e lavoro libero condividono una storia comune. Il lavoro coatto è stato una componente pervasiva delle economie globali e continua a esserlo: non si può negare infatti che forme di coercizione lavorativa sono proseguite anche dopo tale spartiacque. E anche prima, le distinzioni tra libertà e coercizione erano spesso più sfumate nella pratica. Molto spesso il cosiddetto lavoro libero presentava forme più o meno evidenti di coercizione. Questo perché i confini tra libertà e coercizione sono determinati storicamente. In ogni epoca esistono diverse concezioni di libertà, determinate da fattori come lo status sociale e giuridico, la religione, i diritti riconosciuti e la trasmissione di essi alle successive generazioni. Di conseguenza è necessario cogliere le connessioni tra questi aspetti, e tra questi e la prassi effettiva, piuttosto che leggerli alla luce di una presunta evoluzione eurocentrica o occidentale.
Servi e marinai
Il primo capitolo affronta il servaggio russo, più volte preso a simbolo di lavoro non libero, insieme alla schiavitù coloniale. In Russia, il servaggio era una forma di estorsione. Esso si configurava come una serie di relazioni di potere, legate a dinamiche territoriali e sociali. I contadini, vincolati alla terra e soggetti a continue angherie e oppressioni, erano obbligati a fornire lavoro ai padroni. Tuttavia, esistevano anche delle modalità per sottrarsi a tali obblighi. Una lettura troppo appiattita sulla classica opposizione tra la modernità industriale delle città e la stagnazione delle campagne deve perciò essere rivalutata.
Il secondo capitolo esamina la figura dei marinai, le cui condizioni di vita erano di fatto assimilabili a quelle degli schiavi. Questo fenomeno, diffuso in Europa e in particolare nelle colonie francesi e inglesi, derivava da pratiche antiche come il reclutamento militare, i rapimenti nei porti e l’impiego di schiavi, spesso condannati per qualche crimine o anche prigionieri di guerra. La vita dei marinai iniziava generalmente come mozzi, all’interno di un sistema rigido e oppressivo, che rifletteva le dinamiche economiche e sociali dell’epoca. I marinai si posizionavano così tra la subordinazione servile e il loro ruolo economico sul quale si basava il potere marittimo delle grandi potenze europee.
Il secondo capitolo esamina la figura dei marinai, le cui condizioni di vita erano di fatto assimilabili a quelle degli schiavi. Questo fenomeno, diffuso in Europa e in particolare nelle colonie francesi e inglesi, derivava da pratiche antiche come il reclutamento militare, i rapimenti nei porti e l’impiego di schiavi, spesso condannati per qualche crimine o anche prigionieri di guerra. La vita dei marinai iniziava generalmente come mozzi, all’interno di un sistema rigido e oppressivo, che rifletteva le dinamiche economiche e sociali dell’epoca. I marinai si posizionavano così tra la subordinazione servile e il loro ruolo economico sul quale si basava il potere marittimo delle grandi potenze europee.
Lavoro «libero» e schiavitù
Il terzo capitolo esplora i legami tra dinamiche marittime e terrestri in Europa, evidenziando come il lavoro libero, spesso contrapposto alla schiavitù dei contadini russi o dei marinai, fosse caratterizzato in realtà da una diffusa subordinazione. Tra Sette e Ottocento, il lavoratore salariato non era affatto indipendente, ma soggetto a rapporti di potere che limitavano la sua autonomia. Il suo status giuridico sarebbe stato definito solo tra la fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento. I lavoratori dell’epoca, inclusi operai, artigiani, commercianti, e anche domestici, svolgevano spesso attività multiple per sopravvivere. Questo sistema rifletteva un’organizzazione economica che subordinava il lavoratore alle esigenze del padrone, e che sarebbe stata superata solo con le prime leggi sui diritti del lavoro.
Il quarto capitolo analizza il dibattito sviluppato in seno al movimento abolizionista. Alcune posizioni sostenevano che i proletari salariati, sfruttati e subordinati, fossero assimilabili agli schiavi, e che fosse dunque prioritario migliorare le loro condizioni piuttosto che abolire la schiavitù coloniale. Questa retorica, sebbene mettesse in luce le difficoltà dei lavoratori liberi, ignorava le profonde differenze tra schiavitù e lavoro salariato. Del resto, tale argomentazione veniva spesso usata per ritardare l’abolizione della schiavitù, mascherando le implicazioni economiche e morali della schiavitù nelle società coloniali.
I capitoli quinto e sesto analizzano le conseguenze dell’abolizione della schiavitù (1833-1838 nell’Impero britannico, 1848 in quello francese), evidenziando come la fine formale della schiavitù non abbia garantito una reale emancipazione. Gli ex schiavi erano spesso costretti a sottostare ad accordi di lavoro vincolanti, mantenendo condizioni di dipendenza simili al passato. Per colmare la carenza di manodopera nelle colonie, gli imperi avviarono programmi di immigrazione su larga scala, introducendo lavoratori a contratto dall’India e dalla Cina («servitù per debito contrattuale»). Questi immigrati furono sottoposti a nuove forme di sfruttamento, confermando come l’abolizione della schiavitù, in Russia come negli Stati Uniti, e la stessa introduzione del nuovo contratto di lavoro nell’Europa occidentale, con la nascita delle prime forme di previdenza sociale, avessero in realtà solo trasformato, ma non eliminato, le tradizionali strutture di dominio economico e sociale.
Il quarto capitolo analizza il dibattito sviluppato in seno al movimento abolizionista. Alcune posizioni sostenevano che i proletari salariati, sfruttati e subordinati, fossero assimilabili agli schiavi, e che fosse dunque prioritario migliorare le loro condizioni piuttosto che abolire la schiavitù coloniale. Questa retorica, sebbene mettesse in luce le difficoltà dei lavoratori liberi, ignorava le profonde differenze tra schiavitù e lavoro salariato. Del resto, tale argomentazione veniva spesso usata per ritardare l’abolizione della schiavitù, mascherando le implicazioni economiche e morali della schiavitù nelle società coloniali.
I capitoli quinto e sesto analizzano le conseguenze dell’abolizione della schiavitù (1833-1838 nell’Impero britannico, 1848 in quello francese), evidenziando come la fine formale della schiavitù non abbia garantito una reale emancipazione. Gli ex schiavi erano spesso costretti a sottostare ad accordi di lavoro vincolanti, mantenendo condizioni di dipendenza simili al passato. Per colmare la carenza di manodopera nelle colonie, gli imperi avviarono programmi di immigrazione su larga scala, introducendo lavoratori a contratto dall’India e dalla Cina («servitù per debito contrattuale»). Questi immigrati furono sottoposti a nuove forme di sfruttamento, confermando come l’abolizione della schiavitù, in Russia come negli Stati Uniti, e la stessa introduzione del nuovo contratto di lavoro nell’Europa occidentale, con la nascita delle prime forme di previdenza sociale, avessero in realtà solo trasformato, ma non eliminato, le tradizionali strutture di dominio economico e sociale.
Una scala globale per rivedere una interpretazione eurocentrica e teleologica
Il settimo capitolo sposta infine l’analisi sul continente africano. Il lungo permanere delle pratiche schiavistiche nelle colonie – si veda il contesto del Congo, che si distingue per brutalità e violenza estrema – conferma che i cambiamenti introdotti in seguito all’abolizione della schiavitù e ai primi abbozzi di Stato sociale coinvolsero in realtà una minoranza di lavoratori. Va dunque riletta l’interpretazione classica che associa capitalismo e lavoro salariato, o che legge l’abolizione della schiavitù come un passaggio «obbligato» dal feudalesimo al capitalismo. Non si può insomma intendere la storia del lavoro coatto in maniera distinta da quella del lavoro libero, così come non si può leggere la storia di queste «metamorfosi» europee e occidentali senza guardare allo sfruttamento altrove persistente.
È per questo motivo che la chiave «globale», come dimostra il lavoro di Stanziani, bene si presta per studiare il legame che ancora oggi unisce (si pensi al fenomeno dell’immigrazione) il lavoro con la coercizione.
È per questo motivo che la chiave «globale», come dimostra il lavoro di Stanziani, bene si presta per studiare il legame che ancora oggi unisce (si pensi al fenomeno dell’immigrazione) il lavoro con la coercizione.