La storiografia e la storia delle disabilità: cosa, come, perché

di Martina Salvante

Di che cosa parliamo quando parliamo di «disabilità»

In generale, la disabilità può essere definita una forma universale di condizione umana, influenzata da dimensioni sociali e psico-fisiche che rendono più difficile per una persona compiere certe attività o interagire con il mondo circostante. Diciamo “universale” perché persone con disabilità hanno vissuto in ogni epoca storica e in ogni angolo del mondo.

La disabilità può essere sia visibile sia invisibile: in questa ampia categoria sono comprese infatti disabilità fisiche, mentali, sensoriali e dello sviluppo. La disabilità è una condizione a cui una persona può ritrovarsi in qualsiasi momento della vita, visto che molte forme di disabilità emergono a seguito di attività umane (un incidente, una ferita di guerra, una contaminazione…) e non esclusivamente dalla nascita o per cause genetiche.

Riflettere sulla disabilità con gli strumenti della storiografia significa in primo luogo tener presente che proprio la definizione di «disabilità» va storicizzata. Le descrizioni e le determinazioni delle sue varie forme sono infatti variate nel tempo e nello spazio, cioè da un contesto culturale all’altro attraverso i secoli.

L’altra questione importante per un’analisi storica è l’attenta valutazione del rapporto tra i soggetti considerati e il contesto. Nel nostro caso, per esempio, è importante sondare la relazione tra i soggetti che hanno utilizzato in passato o utilizzano oggigiorno la definizione di disabilità e quelli a cui invece questa definizione è applicata. In altre parole, le persone possono percepirsi più o meno disabili, oppure più o meno limitate dalla loro condizione fisica o mentale; ma possono anche essere ostacolate nella loro interazione con il mondo circostante da altri tipi di ostacoli, quali superstizione, pregiudizio, discriminazione, barriere strutturali, norme di legge.

 

«Niente su di noi senza di noi»

«Nothing about us without us»: «niente su di noi senza di noi» è stato lo slogan scelto da gruppi di attiviste e attivisti con disabilità che, soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, hanno cominciato a manifestare pubblicamente per rivendicare il diritto a un’inclusione effettiva nella società (rimozione delle barriere architettoniche e strutturali, accesso paritario a educazione e lavoro, vita indipendente).

Questa mobilitazione non è stata la prima nella storia: persone con disabilità si erano già attivate per promuovere cambiamenti e rivendicare la loro capacità di azione e decisione. Si può ricordare per esempio la partecipazione attiva di non vedenti e ipovedenti alla gestione di enti e associazioni per l’assistenza a bambini e adulti ciechi sorti in alcune città italiane tra il XIX e il XX secolo. Fra questi vi fu Dante Barbi Adriani (1837-1897), persona non vedente che molto si adoperò a Firenze e in Italia per promuovere l’istruzione dei disabili visivi, fondando il periodico in Braille «Il mentore dei ciechi» (1876) e presiedendo la Società nazionale «Margherita» di patronato per i ciechi. Oppure Augusto Romagnoli (1879-1946), autorevole pedagogo a sua volta non vedente, che non solo contribuì all’istruzione dei disabili visivi, ma anche alla formazione degli insegnanti grazie alla fondazione a Roma della Scuola di metodo per gli educatori dei ciechi nel 1925. Il volume Ragazzi ciechi che Romagnoli pubblicò nel 1924 è ancora oggi un’importante opera tiflo-pedagogica, appartenente cioè all’ambito della tiflologia (dal greco antico typhlòs, «cieco»), la disciplina che si occupa di analizzare le condizioni e le sfide vissute dalle persone con disabilità visiva con l’obiettivo di individuare strategie per favorirne la completa integrazione sociale e culturale.

Il movimento moderno delle persone con disabilità si è inserito in un contesto diverso, si è sviluppato insieme, sulla scia o in collegamento con altri movimenti sociali (per i diritti civili, femminista, operaio, studentesco…) che sono riusciti a diventare protagonisti di quegli anni, conquistando in primo luogo visibilità e diritto di parola. Lo slogan prescelto segnala appunto la volontà delle persone con disabilità di partecipare alle decisioni che le riguardano, come, per esempio, leggi e provvedimenti inerenti alle loro condizioni di vita.

La nascita di movimenti di attivisti e attiviste disabili negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Italia e in numerosi altri Paesi del mondo ha stimolato importanti cambiamenti nella considerazione della disabilità nelle società contemporanee, sia sul versante culturale sia su quello legislativo.

Per esempio, Judith Heumann (1947-2023) fu un’attivista statunitense che lottò per la fine della segregazione educativa e lavorativa delle persone con disabilità. Nel 1977 partecipò insieme a molti altri attivisti all’occupazione degli uffici regionali del Dipartimento della Salute, Educazione e Welfare in dieci città statunitensi, tra cui New York, per chiedere l’applicazione della legge 504 che garantiva i diritti delle persone con disabilità. Usando i metodi della protesta non-violenta, gli attivisti disabili intesero attirare l’attenzione sul trattamento iniquo subito dalle persone con disabilità e rivendicare il diritto all’inclusione sociale.

 

Il linguaggio: una posta in gioco, anche per la storiografia

Uno dei cambiamenti più evidenti delle trasformazioni degli ultimi decenni riguarda la lingua e i termini usati per parlare di disabilità. Alcuni vocaboli oggi non solo sono desueti, ma risultano offensivi: «storpio», «deforme», «ritardato mentale», «spastico», «idiota», «imbecille», «mongoloide» sono stati impiegati in passato come insulti o epiteti, ma erano spesso anche di uso comune o altrimenti utilizzati nel mondo della medicina e della scienza, nelle aule di tribunale, sulla stampa e nei documenti ufficiali.

Non si tratta unicamente di una questione formale: la trasformazione del linguaggio è stata un tassello, e allo stesso tempo un fattore, di una più ampia trasformazione della sensibilità sociale.

Questi mutamenti chiamano in causa anche la storiografia: certi documenti storici, testuali o visivi, possono essere testimonianza della discriminazione e anche della violenza perpetrata ai danni delle persone con disabilità in passato. È molto importante che queste fonti storiche siano contestualizzate e che si comprenda perché oggi certi termini e immagini risultano dispregiative e non più accettabili. Queste parole devono quindi essere esaminate nel loro contesto storico e fatte oggetto di discussione critica. Il modo in cui il linguaggio cambia nel corso del tempo può, per esempio, rivelare più ampiamente atteggiamenti sociali, sviluppi politici e cambiamenti nelle strutture legali, governative ed economiche.

 

Una legislazione che è cambiata

Il linguaggio trasforma a poco a poco non solo le percezioni ma anche le pratiche. In questo campo, ovviamente, è fondamentale il diritto. La legislazione italiana in materia ha i suoi primi caposaldi in anni che siamo abituati ad associare ad altre grandi trasformazioni della società e dei suoi costumi: nel 1968 fu varata la legge per l’impiego obbligatorio delle persone disabili ed emanata la circolare del Ministero dei Lavori Pubblici relativa a norme per assicurare l’accesso agli edifici pubblici alle persone con disabilità; nel 1977 ci fu introduzione dell’insegnante di sostegno per mettere fine alla segregazione degli alunni disabili e favorirne invece l’inclusione.

Senza ripercorrere qui tutte le tappe di una legislazione ormai nutrita e complessa (di per sé materia per una storia giuridica della disabilità), segnaliamo che in questo campo è stata fondamentale l’azione del diritto e delle istituzioni internazionali, che hanno promulgato documenti e trattati sui diritti e sulla dignità delle persone con disabilità. La Convenzione per i diritti delle persone con disabilità dell’ONU (approvata nel 2007, entrata in vigore nel 2008) ha ispirato significativi cambiamenti legislativi riguardanti lavoro, educazione, parità di trattamento, ecc. in vari contesti nazionali (vedi Appendice).

 

Un modello medico vs. un modello sociale

La nascita di un movimento moderno per i diritti delle persone con disabilità ha avuto un impatto importante anche nelle scienze sociali, inclusa la storiografia.

I cosiddetti disability studies («studi sulla disabilità») hanno infatti incoraggiato a considerare la disabilità non più solo ed esclusivamente nel quadro della medicina e della psicologia – com’era stato fatto per esempio dai pur autorevoli studi sulla storia dell’internamento psichiatrico – ma a inserirla piuttosto in un più ampio contesto, culturale, sociale e politico, per storicizzare il concetto stesso di disabilità.

Attivisti e attiviste negli anni Ottanta e Novanta del Novecento – fra questi il sociologo britannico Mike Oliver (1945-2019) – hanno teorizzato il modello sociale della disabilità per denunciare l’oppressione e la marginalizzazione subite e spiegare che le barriere sociali e strutturali rendono disabili le persone quanto o più dei loro corpi/menti. Il modello sociale intendeva così contrapporsi al modello medico che, soprattutto a partire dal XIX secolo, aveva considerato la disabilità come una condizione o una menomazione che limita una persona o le rende più difficile impegnarsi in attività o interagire con il mondo circostante. Per il cosiddetto modello medico la disabilità è una condizione individuale da diagnosticare, valutare e curare. In passato l’attenzione esasperata all’aspetto medico aveva contribuito al trattamento per così dire «normalizzante» delle persone con disabilità, la cui inclusione passava esclusivamente attraverso la loro riabilitazione per conformarsi a modelli fisici, sociali ed economici considerati per l’appunto standard. Secondo il modello sociale, invece, è piuttosto la società a creare la disabilità tramite stigma e barriere strutturali. Motivo per cui è importante agire sull’educazione al rispetto e sull’accessibilità di luoghi e ambiti sociali (educazione, lavoro, sport, ecc.).

Nel corso degli anni altri approcci sono stati proposti da ricercatori e ricercatrici, ma il modello sociale ha contribuito enormemente a cambiare la prospettiva per la considerazione della disabilità.

La storiografia può quindi investigare rappresentazioni e significati associati alla disabilità nei secoli e in diversi ambiti e contesti socioculturali. Può per esempio esplorare credenze e pratiche di discriminazione, segregazione o intervento coatto, motivate ora da convinzioni religiose, ora da atteggiamenti persecutori, ora da fini di controllo e cura. Ma è anche importante che la storiografia consideri nella loro interezza le persone con disabilità, cercando di ricostruirne e interpretarne esperienze, desideri, operato e contributo alla società. Queste persone si dà il caso che abbiano una disabilità, ma esse non sono la loro disabilità.

 

Le domande aperte della storia

In che modo la disabilità si collega ad altre categorie sociali, tra cui, ma non solo, il genere, la classe sociale, l’origine geografica, l’età? Che cosa si pensava della disabilità in diversi periodi storici e in diverse parti del mondo? Che cosa hanno pensato varie persone e personalità con disabilità di se stesse? Quali fonti storiche possono essere usate per ricostruire la diversità delle percezioni e delle esperienze della disabilità attraverso i secoli e in diversi contesti geografici, sociali e politici?

Sono solo alcuni dei quesiti che la storiografia può sollevare, contribuendo a esaminare, valutare e confrontare le molteplici rappresentazioni e definizioni di diverse forme della disabilità fornite attraverso i secoli da testi religiosi, leggi, trattati medici, pitture, fotografie, diari personali, corrispondenze, ecc. in Italia, come in altri paesi del mondo.

La storia della disabilità si presta ad affrontare un’ampia gamma di temi e argomenti proprio perché, come abbiamo sottolineato in apertura, il termine «disabilità» non è di facile definizione. Attraverso una discussione critica di documenti di varia natura prodotti nel passato è possibile non solo ricostruire le vite e le esperienze di persone con disabilità, le percezioni e le rappresentazioni inerenti alla disabilità, ma anche riflettere su concetti importanti come identità, comunità, normalità e cittadinanza.

 

Letture consigliate

Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Roma, Carocci 2012

Michael Rembis, Catherine Kudlick, Kim E. Nielsen (a cura di), The Oxford Handbook of Disability History, Oxford, Oxford University Press 2018

 

Altri strumenti

Si segnala il documentario Crip Camp: disabilità rivoluzionarie, 2020, disponibile su Netflix

 

Una testimonianza

Luca Pampaloni, Il cuore a sinistra senza ruota di scorta. Memoria e liberazione su quattro ruote, Milano, JacaBook 2007

 

L’Autrice

Martina Salvante è una studiosa di Storia contemporanea che ha maturato esperienze di insegnamento e ricerca in vari Paesi europei. Dopo il dottorato, conseguito nel 2008 presso l’Istituto Universitario Europeo (Firenze), ha lavorato presso il Trinity College Dublin, l’Università degli Studi di Firenze, la University of Warwick e la University of Nottingham. Le sue ricerche riguardano la storia culturale e delle pratiche sociali, soprattutto tra Prima guerra mondiale e fascismo, la storia delle disabilità, la storia di genere e delle maschilità. Tra le sue pubblicazioni in italiano: La paternità nell’Italia fascista. Simboli, esperienze e norme, 1922-1943, Viella, Roma 2020.

 

Appendice. Cronologia essenziale (1968-2024)



1968 Legge 2 aprile 1968, n. 482 sul collocamento lavorativo delle persone con disabilità. Questa legge disciplinava l’assunzione obbligatoria presso aziende pubbliche e private di una percentuale di persone con disabilità.

1977 Legge 4 agosto 1977, n. 517, Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico. L’art. 2 sanciva che la scuola attuasse «forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati».

1978 Legge 13 maggio 1978, n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. Più nota come Legge Basaglia, rappresentò un importante cambiamento culturale nei confronti del trattamento della malattia psichica.

1981-1992 proclamato Anno delle persone con disabilità dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), a cui seguì il decennio dedicato alle persone con disabilità (1983-1992).

Nel dicembre 1992 l’Assemblea generale dell’ONU propose ai Paesi membri di osservare ogni anno il 3 dicembre la Giornata internazionale delle persone con disabilità.

1992 Legge 8 febbraio 1992, n. 104, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

2009 Legge 3 marzo 2009, n. 18. L’Italia ratifica la Convenzione ONU sui diritti per le persone con disabilità, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel dicembre 2006. Testo in italiano disponibile dal sito del Ministero del Lavoro:

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/disabilita-e-non-autosufficienza/focus-on/Convenzione-ONU/Documents/Convenzione%20ONU.pdf.

2024 Con il Decreto legislativo n. 62 la normativa nazionale di riferimento sull’assistenza, l’integrazione e i diritti dei disabili – Legge n. 104 del 1992 – è stata modificata per introdurre la nuova definizione di «condizione di disabilità» al posto di termini quali «handicappato» e «portatore di handicap».

La nuova definizione è la seguente: «È persona con disabilità chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all’esito della valutazione di base».