Israele, Palestina. La necessità di una soluzione politica per una “guerra dei cent’anni”

di Arturo Marzano

Un anno dopo

Nessuno si sarebbe mai aspettato che la guerra che Israele ha iniziato a condurre nella Striscia di Gaza all’indomani dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 sarebbe continuata per così tanto tempo. Non solo: dal 17 settembre 2024 il conflitto si è allargato al Libano del sud, dopo mesi di lanci di missili di Hezbollah contro il nord di Israele e di incursioni dell’aviazione israeliana sul Libano del sud. Dal 30 settembre, con l’attacco missilistico iraniano contro Israele, la guerra ha assunto una dimensione pienamente regionale.

Mentre scrivo questo pezzo (1° ottobre 2024), moltissima è la preoccupazione per cosa possa accadere in queste ore, per quella che si ritiene essere la certa risposta israeliana contro Teheran e che potrebbe portare a un’escalation militare con conseguenze ancora più drammatiche per tutto il Medio Oriente. Di fronte a tutto questo, la comunità internazionale è paralizzata e non sembra interessata o in grado di rendere concrete le proposte di cessate il fuoco.

Quanto appena detto, oltre a fotografare la drammatica situazione in cui ci troviamo, credo ci aiuti a comprendere un aspetto essenziale del conflitto israelo-palestinese: la compresenza di tre cerchi – interno, regionale e internazionale – ciascuno dei quali ha un ruolo chiave nell’influenzarne l’andamento. I modi in cui questi tre cerchi si sono intersecati e si intersecano è ciò che ci aiuta a comprendere la complessità del conflitto, già intricato di per sé per la commistione tra torti e ragioni che stanno da entrambe le parti.

 

Un conflitto per la terra: locale, regionale, internazionale

La lunga storia del conflitto può essere fatta risalire agli anni Ottanta dell’Ottocento, quando iniziò la prima ondata migratoria verso la Palestina ottomana di giovani ebrei russi in fuga dai pogrom dopo l’uccisione dello zar Alessandro II nel 1881. Tale ondata migratoria fu seguita da altre quattro fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, quando divenne impossibile per gli ebrei europei lasciare il continente. La reazione della popolazione araba della Palestina portò al conflitto, che va compreso come uno scontro tra due nazionalismi:

  • da un lato, quello ebraico, cioè il sionismo, che riteneva che gli ebrei europei non avessero altra possibilità per fuggire alla violenza e al crescente antisemitismo se non costruire un proprio Stato nazione in quella che chiamava Eretz Israel [Terra di Israele], cioè il luogo dove secondo la tradizione ebraica erano esistiti i regni di David e Salomone e da dove gli ebrei erano stati cacciati dopo la distruzione del Secondo Tempio da parte dei romani nel 70 d.C.;

  • dall’altro, il nazionalismo arabo-palestinese, a partire dalla convinzione della comunità araba che abitava la Palestina di avere una propria identità nazionale diversa da quella degli altri arabi dell’Impero e pertanto di avere diritto a un proprio Stato nazione.


Al centro del contendere era dunque la stessa terra, che tanto la comunità ebraico-sionista quanto quella arabo-palestinese rivendicavano come luogo di realizzazione del proprio diritto all’autodeterminazione.

Passando dal crollo dell’Impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale al Mandato britannico (1922-1948), il conflitto tra sionismo e nazionalismo palestinese si è approfondito, fino alla Guerra del 1948, scoppiata dopo la fine della presenza britannica. La guerra ha visto la nascita di uno Stato ebraico, Israele, ma la mancata creazione di uno Stato palestinese, nonostante le Nazioni Unite avessero previsto la divisione del territorio della Palestina mandataria in due Stati, oltre a un corpus separatum composto dai luoghi santi sotto l’egida delle Nazioni Unite.



Come si capisce, la conseguenza fu che il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico venne realizzato, a differenza di quello del popolo palestinese. Da allora in poi, ogni tentativo di eliminare questa asimmetria è fallito, sia per ragioni interne – la debolezza della leadership politica palestinese e l’opposizione di Israele – sia per la responsabilità degli attori regionali e internazionali. Proprio il secondo e il terzo cerchio sono infatti necessari per comprendere l’evoluzione del conflitto.

I paesi arabi, nonostante le loro roboanti retoriche, non hanno mai concretamente appoggiato la nascita di uno Stato palestinese. Nel 1948, la Transgiordania si alleò con Israele per annettere la Cisgiordania, che invece avrebbe dovuto essere parte dello Stato arabo. Negli anni Cinquanta, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser sfruttò la carta del sostegno alla Palestina per tentare di fare dell’Egitto la potenza araba regionale. Nei decenni successivi altri paesi arabi, come Siria, Iraq e Libia, utilizzarono il sostegno alla causa palestinese meramente per ragioni strumentali, perché ambivano alla supremazia regionale.

Per quanto riguarda gli attori internazionali, la Gran Bretagna nel 1948 sostenne l’accordo tra Transgiordania e Israele per evitare che nascesse uno Stato arabo in Palestina. Nei decenni successivi, poi, gli Stati Uniti si opposero all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), emersa dalla fine degli anni Sessanta come rappresentante politico dei palestinesi, tanto da esprimere la propria contrarietà all’ipotesi che nascesse uno Stato palestinese sui Territori occupati da Israele a seguito della Guerra dei sei giorni del giugno 1967 (Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est).



La motivazione principale fu che Washington leggeva il conflitto israelo-palestinese alla luce del prisma della Guerra fredda e dunque sosteneva Israele, alleato del blocco occidentale, contro l’OLP, legato invece al blocco sovietico.

 

Un paletto della cronologia recente: la debolezza degli Accordi di Oslo

Non è un caso che solo dopo la fine della Guerra fredda si aprì la stagione degli Accordi di Oslo, a oggi il momento di maggiore speranza per una soluzione pacifica del conflitto. Fu dopo il 1989 che Mosca e Washington iniziarono a collaborare spingendo le parti verso negoziati di pace, ma furono chiaramente gli Stati Uniti a gestire le trattative data l’egemonia globale raggiunta dopo il crollo dell’URSS nel 1991.

Gli Accordi di Oslo – il primo dei quali firmato dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal presidente dell’OLP Yasser Arafat nel 1993 sotto l’egida del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton – si basavano sull’idea di un compromesso sulla terra: l’OLP avrebbe riconosciuto il diritto dello Stato di Israele a esistere e quest’ultimo si sarebbe gradualmente ritirato da una parte dei Territori occupati Palestinesi (ToP).



Tuttavia, come è noto, questi accordi sono tragicamente falliti. Le motivazioni principali credo possano essere ritenute due.

  1. Da un lato, l’incapacità tanto del governo israeliano quanto dell’OLP di neutralizzare quelle parti contrarie agli Accordi: l’estrema destra sionista, soprattutto di natura religiosa, e Hamas (acronimo per un’espressione che può essere tradotta come “Organizzazione di resistenza islamica”), nata nel 1987 nella Striscia di Gaza. La violenza esercitata da questi due attori contro civili, sia israeliani sia palestinesi, ha portato al fallimento degli Accordi: si pensi all’uccisione di 29 palestinesi a Hebron nel febbraio del 1994 e a quella di Yitzhak Rabin nell’ottobre del 1995 da parte di estremisti della destra sionista, così come ai numerosi attentati suicidi condotti principalmente (ma non solo) da Hamas contro civili israeliani.

  2. Dall’altro, una debolezza che gli Accordi già contenevano al momento della firma: essi non prevedevano infatti l’istituzione di uno Stato palestinese e la fine degli insediamenti israeliani sui Territori occupati da Israele nel 1967, dove era prevista solo la progressiva nascita di una “Autorità Palestinese” con compiti di autogoverno in concomitanza con il graduale ritiro delle Forze armate israeliane.


La conseguenza è stata che gli Accordi di Oslo non hanno risolto quel conflitto per la terra iniziato a fine Ottocento. Anzi, esso è proseguito, con Israele che ha finito per controllare sempre più terra palestinese grazie al procedere della colonizzazione dei ToP, sebbene ciò sia illegale secondo quanto stabilisce il diritto internazionale.

 

La radicalizzazione del conflitto nel XXI secolo

Il fallimento di Oslo ha innescato la crisi cui assistiamo oggi. Quel fallimento ha, infatti, portato alla crescita delle forze che si opponevano agli Accordi, cioè la destra sionista e Hamas. In entrambi i due schieramenti, negli ultimi decenni si è aggiunta una dimensione religiosa: tanto la destra sionista religiosa quanto Hamas ritengono che non si possano fare concessioni sulla terra perché per entrambi si tratta di una Terra santa e dunque indivisibile. Ma questo aspetto non deve, a mio avviso, far dimenticare come il nucleo del conflitto continui a essere di natura politica, vale a dire uno scontro tra due nazionalismi che competono per la realizzazione del proprio diritto all’autodeterminazione sulla stessa terra.

Paradossalmente, Hamas e i governi israeliani di destra, guidati dal 2009 quasi ininterrottamente da Benjamin Netanyahu, si sono giustificati e rafforzati a vicenda. Hamas poteva dire che Israele non voleva un compromesso, come dimostrava la crescente colonizzazione israeliana dei ToP; e Netanyahu poteva dire che i palestinesi non erano disposti a un compromesso, come dimostrava il lancio di missili da parte di Hamas sul territorio israeliano.

Nel 2007 la spaccatura all’interno della leadership palestinese tra Hamas e l’OLP è divenuta ancora più evidente, con lo scontro militare tra le due fazioni e il conseguente controllo di Hamas dell’intera Striscia di Gaza e quello dell’OLP sulle zone della Cisgiordania su cui – come prevedeva Oslo – l’Autorità Palestinese esercita un parziale autogoverno. La chiusura totale della Striscia decisa nel 2007 da Israele, con il consenso di Stati Uniti e Unione Europea, ha visto una progressiva crisi umanitaria a Gaza, denunciata già allora dalle Organizzazioni internazionali, e la crescita dentro Hamas di una leadership sempre più radicale.

Il 7 ottobre è stato conseguenza di tutto questo e la guerra in corso a Gaza non ha fatto altro che esacerbare una situazione umanitaria già fortemente compromessa.

 

Un conflitto politico, che deve avere una soluzione politica

La preoccupazione di queste ore e di questi giorni per la stabilità regionale non deve fare dimenticare l’aspetto centrale del conflitto. Come detto, si tratta di un conflitto politico, non religioso, non valoriale, non di civiltà. Un conflitto, dunque, la cui soluzione deve essere politica, perché senza di questa le operazioni militari non servono a nulla; portano solo ulteriore distruzione, radicalizzazione e logiche di vendetta. Un conflitto che non è per nulla “intrattabile” o basato su un “odio atavico” come molti commentatori – erroneamente – ritengono. Come ogni conflitto della storia, anche questo ha avuto un inizio e dunque dovrà avere una fine. Rassegnarsi all’ineluttabilità (presunta) della sua prosecuzione non serve a nulla. Lo dimostrano concretamente le tante esperienze di collaborazione, amicizia, sostegno reciproco che sono esistite sin dalla fine dell’Ottocento tra ebrei e arabi e tra israeliani e palestinesi. Dopo il 7 ottobre, alcuni gruppi congiunti israelo-palestinesi si sono persino rafforzati. La loro proposta è che una soluzione possa essere trovata solo se israeliani e palestinesi la cercheranno insieme, e solo se verranno riconosciuti pari diritti a tutti coloro che vivono tra il Giordano e il Mediterraneo, realizzando così il diritto all’autodeterminazione di entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese.

 

Bibliografia essenziale

Ian Black, Nemici e vicini. Arabi ed ebrei in Palestina e Israele, 1917-2017, trad. dall’inglese di Luigi Giacone, Einaudi, Torino 2018 (ed. or. 2017)

Ahron Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori Occupati, trad. dall’inglese di Maria Lorenza Chiesara, Einaudi, Torino 2017 (ed. or. 2014)

Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, Feltrinelli, Milano 2023

Gerusalemme. Storia di una città mondo, a cura di Vincent Lemire, trad. dal francese di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017

Lorenzo Kamel, Una terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, Carocci, Roma 2022

Arturo Marzano, Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina, Laterza, Roma-Bari 2024

Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, trad. dall’inglese di Stefano Gallo, Rizzoli, Milano 2001 (ed. or. 1999)

Shlaim, Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo, ed. it. a cura di Alessandro Zago, Il Ponte, Bologna 2004 (ed. or. inglese 2000)

 

L’Autore

Arturo Marzano è professore di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’Università di Pisa. Tra le altre cose, ha lavorato nella cooperazione internazionale nei Balcani e in Medio Oriente, soprattutto in Israele/Palestina. Nelle sue ricerche si è occupato di storia internazionale del Novecento, e in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente. È recentissimo il suo contributo per la collana Fact Checking dell’editore Laterza: Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza, Roma-Bari 2024). Tra i suoi libri segnaliamo ancora Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi, Carocci, Roma 2017; Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente, Viella, Roma 2022; e con Guri Schwarz, Attentato alla Sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982: il conflitto israelo-palestinese e l’Italia, Viella, Roma 2013. È diventato ricercatore in Storia e Istituzioni dell’Asia nel 2014 ed è professore associato, in detta disciplina, sempre presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, dal 2017.