
I mongoli dell’Orda d’Oro: nomadi e «moderni»
Marie Favereau, L’Orda. Come i Mongoli cambiarono il mondo, trad. dall’inglese di Chiara Veltri, Einaudi, Torino 2023, 398 pp. Scheda a cura di Lorenzo Tabarrini.
Storiografia, Stati nazionali e imperi
Prima di entrare nel merito del libro, può essere utile fare una breve premessa generale che ci aiuti a inquadrare una delle questioni centrali del libro di Favereau. La storiografia professionale nacque in Europa tra Sette e Ottocento, e ricevette un impulso importante dall’esaltazione dell’idea di nazione portata avanti dalla cultura romantica: molti storici delle prime generazioni, infatti, pensavano di avere il compito di ricostruire le tappe che avrebbero portato al consolidamento delle identità europee, di cui gli Stati nazionali erano considerati l’espressione più compiuta e concreta. I grandi imperi e i popoli nomadi trovavano poco spazio all’interno di questa visione: i primi perché esercitavano il loro dominio su più nazioni, i secondi perché rifiutavano il radicamento in un territorio ben definito, senza il quale la formazione di uno Stato «moderno» è impossibile. Ecco allora che l’immenso impero nomade creato dai mongoli nel corso del Duecento fu a lungo interpretato come una creazione politica destinata per forza di cose al declino e alla scomparsa – quasi un «incidente» della storia utile, al più, a mostrare la renitenza di alcune popolazioni asiatiche al raggiungimento degli stadi più elevati della civiltà.
Simili idee sono state superate, fortunatamente, da molto tempo; e tuttavia l’ombra delle tradizioni storiografiche nazionali continua ad aleggiare sulle vicende dei mongoli nel Medioevo, raramente oggetto delle ricostruzioni esaustive che sarebbe lecito attendersi. Il libro di Marie Favereau, che insegna storia medievale all’università di Paris-Nanterre ed è specialista di storia mongola e del mondo musulmano, rappresenta un significativo passo in avanti: in L’Orda. Come i Mongoli cambiarono il mondo, l’autrice cerca di mettere in rilievo gli elementi di novità che il complesso regime multietnico nato in seguito alle conquiste militari di Chinggis Qa’an (grafia oggi preferita a quella tradizionale, ancora corrente ma scorretta, di Gengis Khan) introdusse, insieme alla loro importanza per la storia del continente eurasiatico nel Medioevo.
Simili idee sono state superate, fortunatamente, da molto tempo; e tuttavia l’ombra delle tradizioni storiografiche nazionali continua ad aleggiare sulle vicende dei mongoli nel Medioevo, raramente oggetto delle ricostruzioni esaustive che sarebbe lecito attendersi. Il libro di Marie Favereau, che insegna storia medievale all’università di Paris-Nanterre ed è specialista di storia mongola e del mondo musulmano, rappresenta un significativo passo in avanti: in L’Orda. Come i Mongoli cambiarono il mondo, l’autrice cerca di mettere in rilievo gli elementi di novità che il complesso regime multietnico nato in seguito alle conquiste militari di Chinggis Qa’an (grafia oggi preferita a quella tradizionale, ancora corrente ma scorretta, di Gengis Khan) introdusse, insieme alla loro importanza per la storia del continente eurasiatico nel Medioevo.
L’Orda: termini, cronologia e fonti
Il termine «orda» sembra derivare da un’antica parola cinese attestata sin dai tempi della dinastia degli Han (207 a.C.-9 d.C.) per descrivere la corte di un re e il quartier generale del suo esercito. «Orda» è poi giunto a designare, per estensione, l’impero che cominciò a formarsi a partire dagli anni Quaranta del XIII secolo per opera dei figli di Jöchi, primogenito di Chinggis Qa’an, al quale il padre aveva affidato la conquista della vastissima steppa a ovest dell’attuale Mongolia, la cui propaggine estrema è costituita dalla pianura ungherese nota come pusta. A causa di alcuni dissidi con Chinggis, però, Jöchi fu privato dell’eredità al trono: fu così che i figli di Jöchi si insediarono nella regione compresa tra i fiumi Volga e Ural (a oriente) e il Mar Nero (a occidente), riuscendo a rendersi parzialmente indipendenti dal centro del dominio mongolo e creando così una comunità politica sovrana (ulus). A questa entità si dà, per l’appunto, il nome di Orda o Orda d’Oro: forse perché il qa’an («re», «signore») risiedeva in un palazzo-tenda chiamato dai mongoli «tenda d’oro» (p. 114) o forse perché viaggiatori e osservatori stranieri intendevano esaltare la ricchezza dell’Orda. È invece preferibile evitare, secondo Favereau, il termine «qa’anato». Questo fu coniato dopo che un’altra ulus mongola, quella degli Ilkhanidi, riuscì a stabilirsi durante la seconda metà del Duecento nell’area dove ora si trovano Siria, Iraq, Iran e Pakistan. L’élite persiana faticò, tuttavia, a comprendere appieno le istituzioni politiche dei nuovi padroni e modellò quindi «qa’anato» su «sultanato»: enfatizzò così il potere del qa’an, ma non rese giustizia al carattere collegiale del governo dell’Orda – vale a dire, al ruolo svolto dai consiglieri del qa’an e al dialogo costante che quest’ultimo doveva intrattenere con i qa’an delle altre ulus.
Chiarita l’origine di alcuni termini, e dunque la ragione di determinate scelte lessicali, passiamo alla struttura del libro. Questo si compone di otto capitoli (oltre a un’introduzione e a un epilogo) che vanno dalle prime, impressionanti conquiste compiute da Chinggis Qa’an tra 1206 e 1221 fino ai decenni compresi tra XIV e XV secolo, quando il qa’an Toqtamish riunificò l’Orda per l’ultima volta prima della sua irreversibile frammentazione in un gruppo di regni indipendenti. Per studiare questi secoli, Favereau ricorre sia alle fonti mongole (come gli yarligh, cioè i decreti e gli ordini imperiali prodotti dalla cancelleria dell’Orda, o i qari söz, i racconti epici realizzati tra XVI e XVII secolo), sia a quelle prodotte da attori esterni (documenti mercantili, manuali di commercio, glossari multilingue…); una base documentaria molto varia e vasta, quindi, che dà spessore e profondità all’analisi condotta nel libro.
Chiarita l’origine di alcuni termini, e dunque la ragione di determinate scelte lessicali, passiamo alla struttura del libro. Questo si compone di otto capitoli (oltre a un’introduzione e a un epilogo) che vanno dalle prime, impressionanti conquiste compiute da Chinggis Qa’an tra 1206 e 1221 fino ai decenni compresi tra XIV e XV secolo, quando il qa’an Toqtamish riunificò l’Orda per l’ultima volta prima della sua irreversibile frammentazione in un gruppo di regni indipendenti. Per studiare questi secoli, Favereau ricorre sia alle fonti mongole (come gli yarligh, cioè i decreti e gli ordini imperiali prodotti dalla cancelleria dell’Orda, o i qari söz, i racconti epici realizzati tra XVI e XVII secolo), sia a quelle prodotte da attori esterni (documenti mercantili, manuali di commercio, glossari multilingue…); una base documentaria molto varia e vasta, quindi, che dà spessore e profondità all’analisi condotta nel libro.
Un commonwealth al centro di una «economia-mondo»
Favereau critica un’altra espressione tradizionale della storiografia: «pax Mongolica», usata per definire il periodo di relative prosperità e stabilità attraversato dall’Orda e dalle altre ulus mongole dal 1260 circa fino alla metà del XIV secolo. Se è infatti corretto parlare di prosperità, bisogna tenere presente che questa fu accompagnata da un crescendo di lotte interne all’impero creato dai figli di Jöchi, cui soltanto la duttilità delle forme di governo mongolo permise di porre un argine. In quale modo l’Orda riuscì ad arricchirsi, dunque? Favereau dedica molte pagine all’argomento, che è alla base della tesi centrale del libro: i Mongoli avrebbero creato una sorta di commonwealth, retto da un sistema di tassazione che non colpiva i beni immobili, bensì i prodotti artigianali (le pellicce in particolare) e le transazioni commerciali. Il commonwealth mongolo era straordinariamente inclusivo: nonostante la conversione dell’élite jöchide all’islam intorno al 1260, alle aristocrazie di città e regni su cui l’Orda aveva esteso il proprio potere fu permesso di mantenere la loro fede; in alcuni casi, anzi, esse furono esentate dal prelievo fiscale (quando era necessario assicurarsene la fedeltà politica) o ancora elevate al rango di esattori per conto dei dominatori mongoli. Questo tipo di amministrazione flessibile (adattata, cioè, alle specifiche caratteristiche e necessità delle singole popolazioni soggette alla ulus) rese possibile un’ampia partecipazione alla rete di scambi mongola, la più grande mai creata fino ad allora nel continente eurasiatico. Era una rete sicura – i viaggiatori europei espressero più volte la loro meraviglia a riguardo – punteggiata da città-tenda, fatte e disfatte con eccezionale rapidità – altro elemento che colpì molto gli Europei – e prive di elementi difensivi, perché solo «chi ha paura fa torre» (come recita la Storia segreta dei Mongoli, la più antica cronaca di corte). Scambi e commerci coinvolsero anche le potenze esterne all’Orda, come il sultanato mamelucco e gli Stati della penisola italiana, cosicché il commonwealth mongolo pose le basi di quella che potremmo chiamare un’«economia-mondo».
«Medievale» o «moderna»? L’Orda in prospettiva storica
Il libro di Favereau riesce pienamente nell’intento di offrirci quell’analisi esaustiva della storia dell’Orda d’Oro di cui l’autrice, nell’apertura del testo, lamentava la mancanza; lo fa attaccando, con efficacia, alcuni stereotipi (come l’equazione tra nomadismo e arretratezza) di cui la storiografia non si è mai completamente liberata. Tuttavia, l’enfasi posta sulle novità positive introdotte dal dominio mongolo merita, forse, di essere mitigata in alcuni punti. L’autrice ricorre a espressioni come «economia di libero scambio» (p. 204) e «effetto catartico sullo sviluppo economico di tutta l’Europa» (p. 203; l’aggettivo usato nell’edizione inglese, p. 184, è catalytic) per descrivere caratteristiche e conseguenze della creazione della rete di scambi mongola. La ulus di Jöchi viene così posta sotto il segno di una modernità che innova e migliora la realtà, quasi anticipando il presente. Ciò va forse a detrimento di alcuni aspetti che porterebbero, invece, a collocare i mongoli in quel mondo medievale al quale, dopotutto, appartenevano: un regime equestre, con un sistema di tassazione meno sofisticato rispetto a quello che si stava sviluppando in Europa latina nello stesso periodo, e un ricorso alla moneta limitato alle esigenze del prelievo fiscale e all’acquisto delle eccedenze agricole nei mesi successivi al raccolto (un uso, quindi, stagionale: p. 191). È certamente vero, come nota Favereau, che il commonwealth mongolo favorì lo sviluppo dei commerci: è il caso, eclatante, del principato russo di Novgorod, che, postosi sotto la protezione militare dell’Orda, riuscì a evitare il probabile attacco da parte dell’ordine dei Cavalieri Teutonici e a instaurare, infine, buone relazioni con i mercanti tedeschi stabilitisi sulle rive del Baltico; di lì sarebbe nata la celebre alleanza commerciale intercittadina nota come Lega Anseatica. Allo stesso tempo, lo sviluppo economico di altre regioni, come quelle dell’Europa occidentale, pare aver seguito percorsi e logiche diverse e, parzialmente o largamente, indipendenti dall’espansione mongola. Che l’Orda abbia cambiato il mondo, come recita il sottotitolo del libro, potrà essere dibattuto ancora in futuro; che il suo impatto sia stato tanto grande quanto – troppo spesso – sottovalutato, è invece una delle più solide e convincenti acquisizioni di questo volume.
Per approfondire
Il libro di Marie Favereau è uscito in edizione originale inglese nel 2021: The Horde. How the Mongols Changed the World, Cambridge, Mass.-London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2021.
N. Di Cosmo, L. Pubblici, Venezia e i Mongoli. Commercio e diplomazia sulle vie della seta nel Medioevo, Viella, Roma 2022.
N. Di Cosmo, L. Pubblici, Venezia e i Mongoli. Commercio e diplomazia sulle vie della seta nel Medioevo, Viella, Roma 2022.