La scala dell’Universo
Di Edwige Pezzulli
- Materie coinvolte: Fisica
In uno sforzo collettivo durato secoli, abbiamo lentamente costruito dei modelli di Universo via via più accurati, in accordo con le osservazioni che si andavano accumulando. Modelli che, fino a poco meno di 100 anni fa, proponevano la nostra come unica galassia di tutto il Cosmo.
Dalla Terra al Sole
La prima vera rivoluzione cosmologica avvenne nel 1500, quando Niccolò Copernico riscoprì la teoria eliocentrica dopo secoli di oblio: con il suo libro De Revolutionibus del 1543, l’astronomo polacco pose il Sole al centro dell’Universo, mentre la Terra perdeva il suo ruolo da protagonista, diventando solo uno dei pianeti del Sistema Solare.
Il resto dell’Universo rimaneva com’era: al centro di tutto troneggiava il Sole che, circondato dalla sfera immobile delle stelle fisse, era immerso in un modello di Cosmo finito e chiuso.
Il dado era tratto. Nel 1584 un frate domenicano nato a Nola scrisse di un Universo aperto e infinito e pieno di altri mondi simili al nostro, un Universo che non aveva più bisogno di un motore immobile esterno, eterno e divino. Questa nuova visione cosmologica, assieme ad altre accuse di eresia, gli costò la vita: il 17 febbraio del 1600, dopo sette anni di reclusione, Giordano Bruno venne arso vivo nella piazza romana di Campo de' Fiori.
Pochi anni dopo la morte di Bruno, Galileo Galilei parlerà nel Sidereus Nuncius di “un così numeroso gregge di Stelle”, di “una ingente folla di Stelle che con il cannocchiale si presenta alla vista”. Keplero fu subito entusiasta delle nuove scoperte di Galileo, che non dimostravano la realtà del sistema copernicano ma lo rendevano tuttavia coerente con le osservazioni: “e così” – come scrive lo stesso Galilei – “con la certezza che è data dagli occhi, noi siamo liberati da verbose discussioni”.
Dal Sole alla Galassia
Il grande dibattito
Questa lunga e appassionata discussione trovò la sua conclusione in un vero e proprio dibattito tra i due, ospitato il 26 aprile 1920 dallo Smithsonian Museum di Washington.
Shapley e Curtis portarono entrambi degli argomenti a favore della propria ipotesi e altri contro quella dell'avversario. A supporto della tesi di Shapley c’era anche Adriaan van Maanen, rinomato astronomo dell'epoca e amico di Shapley, che fornì delle misurazioni a sostegno della tesi del collega. Il dibattito, però, non si concluse con una teoria vincitrice: non era possibile definire le nebulose nemmeno con le migliori osservazioni astronomiche dell’epoca, e la questione rimaneva quindi ancora aperta.
Come spesso accade nella scienza, il Grande Dibattito venne sciolto grazie a delle osservazioni e a esseri umani in corsa verso le proprie passioni. Il corridore di questa storia si chiama Edwin Hubble. È un giocatore di pallacanestro, alto un metro e novanta ed è pronto a diventare avvocato, quando scopre che in California stanno costruendo il telescopio più grande del mondo. Hubble decide allora di abbandonare la via degli obblighi e quella dei desideri del padre (avvocato anche lui) per inseguire il suo primo amore, l’astronomia, e inizia subito a lavorare al grande telescopio sul Monte Wilson.
In una delle fotografie di quella che veniva definita la nebulosa di Andromeda, Hubble riesce a individuare una stella particolare, variabile, pulsante: una cefeide.
Grazie alla relazione di Herietta Swan Leavitt e alla cefeide identificata, Hubble riuscì a ricavare la distanza della nebulosa di Andromeda: 860 mila anni luce. Un numero inferiore a quello che conosciamo oggi, ma più alto di qualsiasi stima della dimensione della Via Lattea.
Correva l’anno 1923: Giordano Bruno aveva ragione, l’Universo diventava di colpo più grande e la nostra galassia era solo una delle tante isole luminose che riempiono lo spazio. Il principio copernicano veniva esteso: la Terra non occupava più alcuna posizione privilegiata nella Via Lattea o nell’Universo, e non esisteva un sistema di riferimento nel quale poterci considerare centrali.
Come reagirono i protagonisti del Grande Dibattito a queste scoperte? Heber Curtis non si fece prendere dall’entusiasmo e reagì in modo calmo e ragionato. Nell’aprile 1925 scrisse: "Ho sempre sostenuto questa tesi [che le nebulose sono galassie lontane], e i recenti risultati di Hubble sulle variabili nelle spirali sembrano rendere la teoria doppiamente certa". Harlow Shapley, invece, fu più plateale. L’astrofisica Cecilia H. Payne-Gaposchkin, arrivata ad Harvard nel 1923, racconterà pubblicamente l’episodio anni dopo. Era nell'ufficio di Shapley quando egli ricevette la lettera di Hubble che descriveva la relazione periodo-luminosità delle cefeidi in Andromeda. "Ecco la lettera che ha distrutto il mio universo", disse Shapley, porgendogliela. E aggiunse: "Credevo nei risultati di van Maanen... dopo tutto, era mio amico".
Per Cecilia Payne-Gaposchkin la lezione fu chiara. Non tanto dal punto di vista cosmologico, quanto sulle contaminazioni umane che possono deformare le questioni scientifiche. In quel momento, prese una decisione per il suo futuro: "non avrei mai accettato le conclusioni di un altro astronomo solo perché gli sono affezionata, né le avrei respinte perché mi è antipatico. Anche se”, ammise, “la tentazione c'è”.