La lezione del colera
di Stefania Franco
L’epidemia di colera mostra alcune analogie con quella del novo coronavirus, dalle reazioni della popolazione alle strategie messe in atto per arginare l’emergenza. Ma soprattutto, l’evoluzione dell’epidemia di colera mostra che il contagio può essere controllato grazie al dialogo tra scienza, politica e società.
Il colera arriva nella nostra penisola nel 1835, precisamente in Piemonte, a causa della violazione del cordone sanitario stabilito con le regioni d’oltralpe. All’epoca, il Piemonte fa parte del Regno di Sardegna, che comprende anche parte della Francia; l’Italia non esiste ancora come entità politica ed è divisa in diversi regni indipendenti, che affrontano la crisi sanitaria imponendo delle quarantene e riescono a rallentare il diffondersi dell’infezione. Tuttavia, l’anno successivo le quarantene vengono allentate perché la popolazione mal tollera le restrizioni alla libertà e alle attività economiche. Così, nel 1837, il colera torna più forte di prima. Nuove terribili ondate si verificano nel 1854-55 e tra il 1865 e il 1867.
Il dibattito nell’Italia preunitaria vede coinvolti scienziati, politici e intellettuali che si interrogano sulla natura dell’agente patogeno e le cause della sua diffusione. Nel 1854 il medico toscano Filippo Pacini osserva per la prima volta dei batteri a forma di virgola nell’intestino dei malati di colera, ma molte domande restano senza risposta. Si valuta la predisposizione individuale e la correlazione tra la patologia e gli stili di vita. Subito ci si accorge che l’epidemia colpisce più violentemente gli strati più poveri della popolazione. Non mancano le teorie del complotto, che accusano i ricchi di aver diffuso il contagio per sterminare i poveri.
Il Paese si trova in una situazione sanitaria disastrosa: la mancanza di infrastrutture come reti fognarie e acqua potabile espone al contagio proprio le zone più disagiate dove, in mancanza di servizi igienici e discariche, è perfettamente normale gettare rifiuti e deiezioni per strada. Manca, inoltre, un coordinamento nazionale e delle pratiche condivise per affrontare le epidemie: ogni stato regionale agisce in maniera indipendente, ma gli effetti si ripercuotono su tutta la penisola perché i rapporti tra la popolazione sono molto stretti.
Dopo l’Unità d’Italia (1861) ci vogliono ancora più di vent’anni prima di arrivare a una politica sanitaria nazionale, il cui merito va attribuito al medico Luigi Pagliani, che porta la scienza igienica nel nostro paese. L’importanza dell’igiene viene confermata alla luce della scoperta del vibrione colerico da parte di Robert Koch, avvenuta nel 1883. Durante l’epidemia del 1884, Pagliani capisce l’importanza di risanare le aree urbane sovraffollate e di creare una rete sanitaria capillare su tutto il territorio. Il risultato della sua opera è la legge sanitaria del 1888 che istituisce il Consiglio superiore della sanità e i consigli regionali, l’obbligo di denunciare le malattie contagiose e quello di vaccinazione. La legge prevede anche dei criteri più stringenti per l’abitabilità delle case. Promuove inoltre la cremazione dei morti per contagio come misura igienica per contenere le epidemie, pratica aborrita dalla Chiesa cattolica. Il colera non viene debellato (è tuttora endemico in alcuni Paesi poveri) ma i risultati di queste politiche non si fanno attendere: le successive ondate sono molto meno aggressive, per arrivare a quella del 1973 che contagia solo 278 persone uccidendone 24.