Igiene, pulizia, usa e getta: un bilancio fra salute e ambiente delle strategie di prevenzione nella pandemia

di Nicole Ticchi

Il 2020, l’anno che ricorderemo per sempre come un punto cruciale, ha portato con sé notevoli cambiamenti nelle nostre vite. Non solo dal punto di vista della salute, ma anche da quello ambientale.

La pandemia da COVID-19 ci ha posti infatti davanti alla necessità di rivedere molte delle nostre abitudini, alcune di esse duramente conquistate fino ai mesi precedenti, e ha causato una importante revisione di quelle attenzioni nei confronti dell’ambiente su cui si stava muovendo un fronte ben compatto.

La contagiosità del coronavirus ha portato, infatti, alla messa a punto di una serie di strategie di contenimento basate prevalentemente su norme di distanziamento, igiene e utilizzo di dispositivi di protezione individuale. Ma non solo. Ha anche reso molto chiara la necessità di richiamare in auge la pratica “usa e getta”, sulla quale fino ad un anno fa c’era grande discussione per andare sempre di più verso una radicale riduzione. A partire da mascherine e guanti fino a posate e confezioni presenti nei luoghi a potenziale elevato affollamento e rischio di contagio, il monouso è tornato a far parte della nostra quotidianità e a sollevare una notevole problematica di impatto per l’ambiente.

 

I Dispositivi di Protezione Individuale

Buona parte dei dpi usati nel mondo sono progettati per essere monouso e contengono una gamma di diverse plastiche, come polipropilene e polietilene nelle mascherine e nei camici, o nitrile, vinile e lattice nei guanti. Questo permette di conferire le proprietà adeguate per garantire una effettiva protezione contro i fattori di rischio da cui vogliamo proteggerci. Inoltre, la maggioranza dei dispositivi di protezione è usa e getta, è prodotta in zone molto lontane da quelle di utilizzo e viene consegnata su richiesta, per limitare le esigenze di stoccaggio e per garantire che le scorte non si degradino.

La mascherina, ad esempio, rappresenta uno scudo anti-COVID che lascia passare, a seconda della tipologia, solo una piccola percentuale del virus, quantità non sufficiente a contagiare né noi stessi, né chi abbiamo di fronte. La comunità scientifica sostiene l'uso delle mascherine, che potrebbero ridurre le possibilità di trasmettere e di contrarre il coronavirus, ma anche ridurre la gravità dell'infezione se le persone contraggono la malattia.
Tuttavia, se fino a un anno fa la richiesta di questi dispositivi era elevata, ma il loro utilizzo era confinato a luoghi e contesti professionali, oggi non è più così e la richiesta di produzione è aumentata a dismisura. Nei primi mesi del 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità ha previsto che le scorte di dpi avrebbero dovuto aumentare del 40 per cento al mese per soddisfare la domanda durante la pandemia, con una stima di 89 milioni di mascherine, 76 milioni di paia di guanti e 1,6 milioni di occhialini protettivi. 

Ma possono anche essere utilizzate mascherine lavabili, eventualmente auto-prodotte, in materiali multistrato idonei a fornire un’adeguata barriera e, al contempo, che garantiscano comfort e respirabilità, forma e aderenza adeguate che permettano di coprire dal mento al di sopra del naso. Il vantaggio, in questo caso, riguarda la riutilizzabilità e la minore produzione di rifiuti da processare.

Diverso è invece il discorso per i guanti, indispensabili per l’assistenza ospedaliera o domiciliare ai malati, in alcuni contesti lavorativi, come per gli addetti alle pulizie, addetti alla ristorazione e commercio di alimenti, ma non assolutamente necessari né raccomandati per l’utilizzo quotidiano dei cittadini. In questo caso, infatti, nonostante nei primi mesi della pandemia l’uso dei guanti si fosse molto diffuso, rappresenta uno spreco e una fonte di ulteriori rifiuti indifferenziati.

 

Le due facce della medaglia

Se la valenza dal punto di vista medico di alcuni dispositivi è ormai assodata, il rovescio della medaglia riguarda la gestione del fine vita. Dove vanno a finire questi oggetti dopo il loro utilizzo? La problematica riguarda due aspetti.

Il primo è di tipo comportamentale, in quanto ancora oggi alcune persone, dopo aver usato mascherine e guanti, non li smaltiscono correttamente e li abbandonano, per strada, nei giardini e persino nei boschi, in campagna e in mare, ignorando che questi strumenti, che sono stati così utili per la nostra salute, alla natura invece non servono.

Il secondo, invece, riguarda le caratteristiche del materiale e la sua potenziale pericolosità come mezzo di contagio. Guanti e mascherine di protezione, una volta usati, vanno infatti sempre gettati nella raccolta indifferenziata. In particolare, le indicazioni ministeriali dicono che in abitazioni in cui sono presenti soggetti positivi al tampone, in isolamento o in quarantena obbligatoria, la raccolta differenziata deve essere interrotta, e che tutti i rifiuti domestici, indipendentemente dalla loro natura e includendo fazzoletti, rotoli di carta, i teli monouso, mascherine e guanti, siano considerati indifferenziati e pertanto raccolti e smaltiti insieme. Per la loro raccolta, ad esempio, dovranno essere utilizzati almeno due sacchetti uno dentro l’altro, andando quindi ad aumentare il consumo di prodotti monouso e a ridurre la possibilità di valorizzare i rifiuti per dare loro una nuova vita.

 

Che fine fanno i rifiuti?

Per mascherine e guanti, ad esempio, dovrà essere privilegiato l'incenerimento, senza alcun pretrattamento o ulteriore selezione e, qualora non sia possibile procedere in tal senso, i rifiuti dovranno essere conferiti in impianti di trattamento o sterilizzazione, ma sempre facendo attenzione ad evitare la selezione manuale e confinandoli per ridurne il più possibile la movimentazione e la dispersione. Questo significa che grandi quantità di rifiuti non hanno la possibilità di essere valorizzati e che, per produrre nuovi materiali, sarà necessario uno sfruttamento di ulteriori risorse primarie ad alti ritmi. 

 

Disinfettare tutto?

Abbiamo ormai fatto nostra l’abitudine di disinfettarci la mani con gel a base alcolica, che hanno il compito di sostituire acqua e sapone quando non disponibili e di uccidere il virus, limitando il contagio legato al contatto fra le superfici.

 
Tra le misure di sicurezza mirate a ridurre la presenza di coronavirus, oltre all’utilizzo di detergenti per le mani e le superfici interne ad ambienti chiusi, era stata valutata anche la possibilità di disinfettare i luoghi all’aperto utilizzando soluzioni a base di ipoclorito di sodio, quella che comunemente chiamiamo candeggina.

Su questo ultimo punto, però, ci sono state da subito opinioni contrastanti. In particolare, diversi enti preposti alla tutela della salute, sia umana che ambientale, si sono pronunciati fortemente contrari in merito alla possibilità di procedere all'uso massivo ed indiscriminato di detergenti per la disinfezione delle strade, considerando questa pratica dannosa per l'ambiente se non opportunamente gestita.

Mentre i detergenti per le superfici di mobili e pavimenti e quelli per le mani, infatti, hanno un impatto limitato grazie alla veloce evaporazione dei prodotti, la disinfezione degli ambienti esterni comporta residui consistenti che possono risultare pericolosi.

Le superfici esterne come strade, piazze e prati, infatti, non devono essere ripetutamente cosparse con disinfettanti poiché ciò potrebbe comportare un grave inquinamento ambientale con conseguente possibile esposizione della popolazione e degli animali, delle acque superficiali con un danno alla vita negli ambienti acquatici e delle acque sotterranee qualora veicolato tramite acqua di scolo non convogliate negli impianti di depurazione.

 

Facciamo un bilancio

In molti paesi le misure di blocco hanno fornito un veloce assaggio di come la natura risponda ad un minor disturbo umano, sia in contesti rurali che urbani. Abbiamo visto come, nei primi mesi di lockdown, le misure anti COVID-19 abbiano avuto un impatto diretto anche sull’uso di energia e sulle emissioni effetto serra. Le attuali previsioni della Commissione Europea stimano per il 2020 una riduzione senza precedenti del carbonio rilasciato in atmosfera rispetto al 2019, visibile sin da ora da un notevole miglioramento della qualità dell’aria e dal calo delle PM10, diminuite in tutta Europa in questo periodo.

La pandemia ha però causato cambiamenti significativi anche nella produzione e nel consumo di plastica e dei rifiuti associati. Come era naturale aspettarsi, ha portato ad un improvviso aumento della domanda globale di dispositivi di protezione individuale (DPI), come maschere, guanti, camici, disinfettanti per le mani. In Italia, in soli 8 mesi, sono stati prodotti 300mila tonnellate di rifiuti sanitari, contando solo mascherine e guanti. 

La tecnologia ci ha permesso di concepire nuovi materiali per produrre oggetti monouso, come plastiche biodegradabili e compostabili, che potranno essere impiegate per far fronte al contenimento del contagio. Ma l’impatto ambientale riguarda anche la fase di reperimento delle materie prime e della produzione, non solo dello smaltimento. Una maggiore richiesta di oggetti monouso comporta un maggiore sfruttamento delle risorse e di energia per trasformarle, a prescindere dalla composizione. 

Rivedere quindi il nostro stile di vita e limitare la necessità di oggetto monouso, quando non strettamente necessari, può contribuire a contenere l’importante impatto ambientale cui stiamo assistendo tutelando allo stesso tempo la sicurezza di noi stessi e dell’ambiente in cui viviamo.