Differenze che contano: COVID-19 e la spinta verso la medicina di genere
di Nicole Ticchi
La storia della medicina ci racconta che nell’ultimo secolo sono stati fatti passi da gigante, sia nelle possibilità di avere a disposizione nuove terapie, sia nella comprensione dei meccanismi di funzionamento del nostro corpo. Ora sappiamo, molto nel dettaglio, le numerose reazioni biochimiche che avvengono nelle nostre cellule e possiamo prevedere, in base a dati e fenomeni, se rischiamo di sviluppare una determinata malattia. Abbiamo un bagaglio di conoscenze molto ricco delle più disparate informazioni scientifiche e stiamo continuando ad arricchirlo.
Anche le terapie sono sempre più numerose e la scienza ha permesso di studiarle con sempre più rigore per garantire che siano efficaci e, soprattutto, sicure.
Raccogliere dati è molto semplice, raccoglierli in modo che siano rappresentativi e possano darci informazioni sempre più complete lo è molto meno. Cosa può andare storto?
La pandemia da COVID-19 ha messo ancora più in mostra un problema che era già noto da tempo: la medicina, troppo spesso, ha preso come modello di riferimento solo o soprattutto i soggetti di sesso maschile. Che si trattasse di capire gli effetti di un farmaco, benefici o collaterali, di comprendere i segni premonitori di una patologia o di studiare gli effetti di una malattia sull’organismo, il riferimento standard dell’essere umano su cui effettuare questa valutazione è stato storicamente (e continua ad essere in gran parte) un maschio bianco.
Le donne sono state per lungo tempo considerate una versione più piccola, per peso e dimensioni, dell’uomo; con le dovute proporzioni, si pensava, i conti tornano comunque.
Ormai è stato dimostrato che non è così e anche la COVID-19 ha spinto ulteriormente in una direzione virtuosa: incentivare la medicina di genere. Nasce con l’obiettivo di comprendere i meccanismi con cui le differenze legate al genere agiscono sullo stato di salute e sull’insorgenza e il decorso di alcune malattie, nonché sugli outcomes delle terapie. Gli uomini e le donne, infatti, pur essendo soggetti alle medesime patologie, presentano sintomi, progressione di malattie e risposta ai trattamenti molto diversi tra loro.
Genere e sesso: non facciamo confusione
Quando un bambino nasce gli viene assegnato un sesso – maschio, M, o femmina, F – in base ai suoi organi genitali esterni. Se un tempo con “sesso” si indicavano anche altre qualità di una persona, attinenti al suo comportamento e non solo alla forma del suo corpo, ora si cerca sempre di più di tenere separate le due cose. Oggi con la parola “sesso” ci si riferisce esclusivamente all’anatomia e alla genetica di una persona (un corredo di cromosomi XX per il sesso femminile e XY per quello maschile), mentre con “genere” si indica sia la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina (cioè l’identità di genere), ma anche il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (cioè il ruolo di genere). Questa distinzione ci aiuta a capire perché il genere e il sesso, da soli, non bastano a identificare una persona e perché un ambito importante come la medicina non può ignorare una delle due dimensioni.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità stessa ne sottolinea l’importanza e identifica la medicina di genere come un approccio per studiare sia l'influenza delle differenze biologiche, indicate col termine sesso, che socio-culturali e economiche, definite come genere sulla frequenza, i disturbi e la gravità delle malattie che colpiscono uomini e donne e, in generale, sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.
Non si parla solo di donne, quindi, e non si parla solo di malattie che riguardano gli organi della riproduzione, come spesso avveniva in passato, pensando che fosse l’unico problema che potesse riguardare le donne. Si studiano invece malattie che possono colpire entrambi i sessi, ma con un livello di analisi più approfondito da inserire in tutte le aree della medicina già esistenti.
Conoscere le differenze tra esseri umani biologicamente diversi è fondamentale per effettuare una corretta prevenzione, migliori diagnosi della malattia e per capire qual è la terapia più indicata per ciascuno di essi. Può accadere, infatti, che vi siano differenze nell'insorgenza o nella progressione di molte malattie determinate proprio dalla presenza dei cromosomi specifici del sesso di una persona, ovvero XX e XY.
Soffermiamoci un attimo su questo aspetto. Le femmine, infatti, possiedono due copie del cromosoma X, mentre i maschi ne hanno una sola copia. Esiste un complesso meccanismo di regolazione che, attraverso l'inattivazione di uno dei due cromosomi X, evita la presenza di quantità doppie dei geni localizzati su questo cromosoma e il modo casuale con cui si verifica l'inattivazione ha una funzione protettiva. Se dovesse verificarsi una mutazione sul cromosoma X riguarderà, nella donna, solo le cellule in cui è rimasto attivo tale cromosoma mentre le cellule portatrici del secondo cromosoma X saranno sane e potranno compensare le cellule con X mutante. Negli uomini, invece, essendo presente un solo cromosoma X, tutte le cellule conterranno la mutazione.
Le evidenze da COVID-19
Dai dati disponibili si è visto che ci sono differenze tra uomini e donne nel contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 e nello sviluppare la malattia: le donne sviluppano una migliore risposta immunitaria, sembrano ammalarsi meno rispetto agli uomini, presentano meno complicanze e hanno una minore mortalità, di circa 1.5 volte in meno. Al contrario, rischiano di più di sviluppare sintomi a lungo termine da COVID-19, la sindrome chiamata Long COVID: sembra essere il doppio nelle donne rispetto agli uomini nell’età compresa tra i 40 e i 50 anni.
Anche la risposta immunitaria mostra, tra il sesso maschile e quello femminile, alcune differenze che sono influenzate da numerosi fattori inclusi gli ormoni, l’età, i cromosomi e anche le componenti di “genere”, come gli aspetti psicologici, sociali e ambientali.
Ad esempio, gli individui di sesso maschile mostrano maggiore prevalenza e gravità di infezioni batteriche, virali e parassitiche rispetto a quelli di sesso femminile, che presentano infatti una risposta più vigorosa ed efficace sia alle infezioni che ai vaccini.
Oggi l’osservazione dei dati che tengono conto del sesso e del genere nell’evoluzione della pandemia da COVID-19 è diventata più frequente ed è sempre più importante. Questo consente di analizzare e capire più a fondo cosa avviene nell’organismo, poter prevedere eventuali altri fenomeni simili e trovare soluzioni più personalizzate per i trattamenti, andando incontro ai bisogni di salute della popolazione.
Non solo COVID-19
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Inoltre, le donne hanno una maggiore speranza di vita alla nascita, sebbene gli anni guadagnati siano spesso vissuti con disabilità. Per peso corporeo medio, maggiore percentuale di massa grassa e minore volume plasmatico, hanno un diverso profilo di assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione dei farmaci, che determina una risposta diversa alle terapie. E proprio parlando di farmaci, quelli che hanno una maggiore affinità per i lipidi tendono ad avere a disposizione un volume più ampio in cui distribuirsi nelle donne, a causa della presenza maggiore di grassi (circa il 25%) nel corpo femminile rispetto a quello maschile. E dato che le donne pesano, di solito, circa il 30% in meno degli uomini, a parità di dosaggio, la quantità di principio attivo che assumono in proporzione al peso è maggiore. Questo può spiegare in parte perché gli effetti collaterali possono essere avvertiti con più frequenza nelle donne quando assumono una quantità di farmaco lipofilo uguale a quella assunta da un maschio.
Le differenze di genere possono avere un’influenza sulla salute? Sì, e questo è visibile negli stili di vita, mettendo in luce sia esigenze diverse a livello fisiologico ed una diversa risposta metabolica ai cibi, sia le influenze socio-economiche e culturali legate al genere, che influenzano i comportamenti e l'esposizione a fattori di rischio ambientali. Considerare di più l’importanza di queste differenze potrebbe portare a un’innovazione dei trattamenti terapeutici e ridurre il tempo necessario per il passaggio dei dati dalla ricerca di base alla pratica clinica, aumentando l’efficacia e la sicurezza delle terapie nella donna con una maggiore sostenibilità del sistema sanitario.
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