
Come far storie a scuola
Andrea Miccichè, Igor Pizzirusso, Marcello Ravveduto Il primo libro di didattica della storia, Einaudi, Torino 2025, 298 p. Scheda a cura di Filippo Benfante
Uno strumento per la formazione e l’aggiornamento
Con questo libro, Andrea Miccichè (Università di Enna), Igor Pizzirusso (Istituto Nazionale «Ferruccio Parri») e Marcello Ravveduto (Università di Salerno) si propongono di offrire a studenti universitari e a insegnanti di storia delle scuole in ogni ordine e grado strumenti per la formazione e l’aggiornamento, in grado di rispondere anche alle «esigenze quotidiane» in classe di questi ultimi (p. X). Ecco qui il senso del titolo Il primo libro di…: il primo da cui partire per una «alfabetizzazione» (termine che ricorre di continuo nel libro) che avvii a una autonoma e consapevole attività didattica da parte dell’insegnante.
Gli autori muovono da due questioni fondamentali. La prima è che tra chi insegna storia a scuola, pochi hanno una specifica formazione nella disciplina, quindi è necessario consolidare i fondamentali e offrire continue occasioni di aggiornamento. Solo così l’insegnante potrà essere «autonomo nella definizione dei percorsi didattici» (p. 23), abilità tanto più importante da quando, alla libertà di insegnamento stabilita dalla Costituzione si sono aggiunte l’autonomia scolastica e la fine di programmi prescrittivi a favore di «Indicazioni» che lasciano facoltà di scegliere metodi e strumenti didattici per raggiungere gli obiettivi previsti («conoscenze», «abilità» e «competenze»). Non si tratta, sottolineano gli autori, «di trasformare gli alunni in storici», ma di farli «pensare storicamente» (secondo la definizione che si è consolidata nella letteratura, pp. 52-60 e passim), ovvero «di plasmare uno stile cognitivo che li incoraggi a utilizzare il pensiero critico anche fuori dalla scuola» (p. 275).
La seconda questione viene da lontano. Chi insegna storia a scuola si trova da sempre in competizione con un’abbondante offerta alternativa di «storia», veicolata dai mass-media in primo luogo. Nell’era digitale questo fenomeno è diventato ancora più pervasivo, legandosi alla trasformazione dei modi e dei tempi della comunicazione e della fruizione, che hanno prodotto, tra le altre cose, una crescente difficoltà a distinguere una semplice opinione da un’interpretazione fondata e il vero dal falso, o dal manomesso e dal verosimile. Da qui la necessità di collegare la didattica della storia alla public history e alla digital history, ovvero le discipline che studiano e interpretano «la domanda di storia che si sviluppa all’esterno del mondo accademico e scolastico» (p. XI). E da qui anche lo sforzo degli autori teso a sottolineare le importanti ricadute «civiche» dell’apprendimento della «scienza degli uomini nel tempo» (secondo la celebre definizione di Marc Bloch, qui citata a p. 23); sono queste ricadute la ragione per cui la materia «storia» dovrebbe mantenere una «centralità» all’interno di ogni percorso scolastico (dalla primaria al diploma di maturità).
Ultima osservazione: c’è anche un esplicito approccio generazionale, scandito da tappe tecnologiche (dal modem a 56k all’attuale always online). Gli autori, della «generazione X» (sono nati tra il 1972 e il 1980), si rivolgono a insegnanti «millennials» (nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta), che oggi hanno il compito di formare la «Generazione Z».
Gli autori muovono da due questioni fondamentali. La prima è che tra chi insegna storia a scuola, pochi hanno una specifica formazione nella disciplina, quindi è necessario consolidare i fondamentali e offrire continue occasioni di aggiornamento. Solo così l’insegnante potrà essere «autonomo nella definizione dei percorsi didattici» (p. 23), abilità tanto più importante da quando, alla libertà di insegnamento stabilita dalla Costituzione si sono aggiunte l’autonomia scolastica e la fine di programmi prescrittivi a favore di «Indicazioni» che lasciano facoltà di scegliere metodi e strumenti didattici per raggiungere gli obiettivi previsti («conoscenze», «abilità» e «competenze»). Non si tratta, sottolineano gli autori, «di trasformare gli alunni in storici», ma di farli «pensare storicamente» (secondo la definizione che si è consolidata nella letteratura, pp. 52-60 e passim), ovvero «di plasmare uno stile cognitivo che li incoraggi a utilizzare il pensiero critico anche fuori dalla scuola» (p. 275).
La seconda questione viene da lontano. Chi insegna storia a scuola si trova da sempre in competizione con un’abbondante offerta alternativa di «storia», veicolata dai mass-media in primo luogo. Nell’era digitale questo fenomeno è diventato ancora più pervasivo, legandosi alla trasformazione dei modi e dei tempi della comunicazione e della fruizione, che hanno prodotto, tra le altre cose, una crescente difficoltà a distinguere una semplice opinione da un’interpretazione fondata e il vero dal falso, o dal manomesso e dal verosimile. Da qui la necessità di collegare la didattica della storia alla public history e alla digital history, ovvero le discipline che studiano e interpretano «la domanda di storia che si sviluppa all’esterno del mondo accademico e scolastico» (p. XI). E da qui anche lo sforzo degli autori teso a sottolineare le importanti ricadute «civiche» dell’apprendimento della «scienza degli uomini nel tempo» (secondo la celebre definizione di Marc Bloch, qui citata a p. 23); sono queste ricadute la ragione per cui la materia «storia» dovrebbe mantenere una «centralità» all’interno di ogni percorso scolastico (dalla primaria al diploma di maturità).
Ultima osservazione: c’è anche un esplicito approccio generazionale, scandito da tappe tecnologiche (dal modem a 56k all’attuale always online). Gli autori, della «generazione X» (sono nati tra il 1972 e il 1980), si rivolgono a insegnanti «millennials» (nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta), che oggi hanno il compito di formare la «Generazione Z».
I metodi della storia e un metodo didattico
Andrea Miccichè affronta la prima questione a partire da I metodi della storia (capitolo 1, pp. 5-51), dove si chiariscono lo statuto della disciplina, le sue specificità (quali sono gli obiettivi della storiografia, che cosa distingue lo storico da altri «investigatori», per esempio un giudice o un medico) e la sua «cassetta degli attrezzi» (p. 6). È per forza di cose un excursus sintetico, che ricorre a classici della metodologia della storia (Marc Bloch ed Edward Carr in primo luogo, ma anche Arnaldo Momigliano o Carlo Ginzburg) e delinea alcuni degli ultimi approcci (storia di genere, globale, ambientale), anche per la loro capacità di introdurre nuove prospettive e punti di vista. È essenziale che la storia si articoli in una pluralità di storie.
Tra le fonti, si privilegiano quelle più accessibili per chi insegna, ovvero quelle «secondarie» (la letteratura su un determinato argomento, la buona divulgazione, altri prodotti che si propongono come ricostruzione documentata e attendibile del passato). Quindi si illustra il lavoro di critica sulle fonti e sull’altra dimensione fondamentale, quella del tempo, dunque le operazioni storiografiche della periodizzazione e della contestualizzazione. A ogni passo Miccichè ragiona sulle ricadute didattiche, suggerisce (in nota) un mazzetto di libri di storiografia che offrono spunti didattici, introduce esempi di attività da svolgere in classe, con diversi livelli di complessità a seconda del grado di scuola. Forse si sarebbe potuto discutere in modo più disteso su come, partendo da casi specifici e circoscritti, sia possibile sollevare questioni di carattere generale; anche qui risiede la dimensione civile e politica (nel senso ampio del termine) della storiografia, quella che dovrebbe essere uno dei motori per suscitare l’interesse almeno di ragazzi e ragazze avviate verso l’età adulta.
Nel secondo capitolo (Didattica operativa e laboratoriale, pp. 52-86) si moltiplicano gli esempi di metodi e strumenti da impiegare per raggiungere il risultato di «pensare storicamente» e le competenze di base che vi sottostanno (cogliere le fonti – anche negli oggetti che usiamo o nel paesaggio che ci circonda –, la collocazione nel tempo, il rapporto tra passato e presente). L’insegnante è invitato a costruire lezioni «operative» e «laboratori» didattici di maggior respiro che «attivino» allievi e studenti, ovvero risveglino la loro attenzione e il loro interesse, coinvolgendoli in un «fare» che insegni un metodo e allo stesso tempo apra «varchi temporali», «accessi» al passato (queste metafore ricorrono di continuo nel libro). Tra gli altri strumenti didattici, Miccichè discute anche del manuale (pp. 81-86), non più nemico giurato della didattica della storia, come era stato agli albori della disciplina, perché autori e case editrici hanno recepito gli inviti a una didattica «innovativa»; questi volumi, oltre a proporre una struttura narrativa e interpretativa, sono utili per gli strumenti e le proposte didattiche che contengono. Tuttavia, e questo è ribadito più volte nel libro, insegnanti e studenti non devono identificare la storia e il suo apprendimento con la pagina del manuale.
Tra le fonti, si privilegiano quelle più accessibili per chi insegna, ovvero quelle «secondarie» (la letteratura su un determinato argomento, la buona divulgazione, altri prodotti che si propongono come ricostruzione documentata e attendibile del passato). Quindi si illustra il lavoro di critica sulle fonti e sull’altra dimensione fondamentale, quella del tempo, dunque le operazioni storiografiche della periodizzazione e della contestualizzazione. A ogni passo Miccichè ragiona sulle ricadute didattiche, suggerisce (in nota) un mazzetto di libri di storiografia che offrono spunti didattici, introduce esempi di attività da svolgere in classe, con diversi livelli di complessità a seconda del grado di scuola. Forse si sarebbe potuto discutere in modo più disteso su come, partendo da casi specifici e circoscritti, sia possibile sollevare questioni di carattere generale; anche qui risiede la dimensione civile e politica (nel senso ampio del termine) della storiografia, quella che dovrebbe essere uno dei motori per suscitare l’interesse almeno di ragazzi e ragazze avviate verso l’età adulta.
Nel secondo capitolo (Didattica operativa e laboratoriale, pp. 52-86) si moltiplicano gli esempi di metodi e strumenti da impiegare per raggiungere il risultato di «pensare storicamente» e le competenze di base che vi sottostanno (cogliere le fonti – anche negli oggetti che usiamo o nel paesaggio che ci circonda –, la collocazione nel tempo, il rapporto tra passato e presente). L’insegnante è invitato a costruire lezioni «operative» e «laboratori» didattici di maggior respiro che «attivino» allievi e studenti, ovvero risveglino la loro attenzione e il loro interesse, coinvolgendoli in un «fare» che insegni un metodo e allo stesso tempo apra «varchi temporali», «accessi» al passato (queste metafore ricorrono di continuo nel libro). Tra gli altri strumenti didattici, Miccichè discute anche del manuale (pp. 81-86), non più nemico giurato della didattica della storia, come era stato agli albori della disciplina, perché autori e case editrici hanno recepito gli inviti a una didattica «innovativa»; questi volumi, oltre a proporre una struttura narrativa e interpretativa, sono utili per gli strumenti e le proposte didattiche che contengono. Tuttavia, e questo è ribadito più volte nel libro, insegnanti e studenti non devono identificare la storia e il suo apprendimento con la pagina del manuale.
La didattica e la storia fuori dalla scuola: l’insegnante come public historian
La sezione firmata da Marcello Ravveduto (Didattica fuori dalla scuola, pp. 89-147) affronta la seconda delle questioni fondamentali che abbiamo indicato in apertura. L’invito è quello di guardare alla public history, la disciplina che si propone di «avvicinarsi all’uso della storia da parte del pubblico» e di diffondere un «buon uso» della storia, sia dal punto di vista tecnico (la già ricordata «cassetta degli attrezzi») sia dal punto di vista etico-civile, tenendo nel dovuto conto la necessità di «entrare in sintonia» con il pubblico. Le pagine dedicate alla genealogia di questa disciplina, e al modo in cui si è sviluppata in Italia, sono un’utile sintesi.
L’insegnante e il public historian avrebbero in comune il fatto di rivolgersi a «una platea non professionale» e di usare un approccio «maieutico»: «sia il public historian sia l’insegnante assumono un ruolo guida conducendo interlocutori e studenti verso una conoscenza storica applicata e collaborativa» (p. 110). Inoltre, chi insegna deve tener presente, come fa la public history, che bisogna insegnare la storia ricorrendo a «tutto ciò che rende più gradevole e coinvolgente la sua fruizione». Bisogna far leva sulla «partecipazione emotiva», anche se con accortezza, senza oltrepassare quei limiti «che portano a quella che qualcuno ha definito la disneyfication del discorso storico, dove lo spettacolo e il sensazionalismo prevalgono su ogni significato» (p. 111, dove Ravveduto riprende le parole dello storico Paolo Bertella Farnetti).
«Se lo storico accademico è uno scienziato che domina la teoria, il public historian e l’insegnante sono tecnici che usano la scienza per renderla utile ai “consumatori”» (p. 112). Il consiglio è dunque quello di importare «nella scuola le pratiche di diffusione della storia che ritroviamo nei festival, nelle rievocazioni, nei documentari, nei film, nei programmi televisivi e nelle piattaforme digitali» (p. 113, dove Ravveduto riprende le parole dello storico Andrea Zannini).
Il capitolo quarto è dedicato a Le sfide della didattica della storia (pp. 122-147). La principale è questa: a scuola – intesa come luogo dove si impara a pensare criticamente – si dovrebbe imparare anche che la storia e il mestiere di storico hanno una funzione sociale, entrando in gioco nella definizione e soluzione di problemi concreti; perciò «è necessario che la didattica si fondi su esempi pratici, applicabili alla risoluzione di problemi collettivi» (p. 145). Idealmente almeno una parte del lavoro in classe dovrebbe avere ricadute, almeno potenziali, verso l’esterno (traducendosi per esempio in una mostra, o in una ricerca su questioni che riguardano la collettività). La formazione di una cittadinanza attiva passa anche per una «democratizzazione» della storia e dei suoi metodi. Oggi, perché riesca la trasmissione di questa consapevolezza e di conoscenza storica, è necessario che chi insegna si confronti su come la storia «raggiunge» i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi che ha davanti in classe: «dai media elettronici ai fumetti, dagli oggetti presenti in casa ai racconti dei nonni, dalle vacanze con la famiglia ai videogiochi» (p. 139); inoltre, deve essere preparato a fronteggiare i linguaggi e le tecniche di quei concorrenti che sono il web e la comunicazione social.
L’insegnante e il public historian avrebbero in comune il fatto di rivolgersi a «una platea non professionale» e di usare un approccio «maieutico»: «sia il public historian sia l’insegnante assumono un ruolo guida conducendo interlocutori e studenti verso una conoscenza storica applicata e collaborativa» (p. 110). Inoltre, chi insegna deve tener presente, come fa la public history, che bisogna insegnare la storia ricorrendo a «tutto ciò che rende più gradevole e coinvolgente la sua fruizione». Bisogna far leva sulla «partecipazione emotiva», anche se con accortezza, senza oltrepassare quei limiti «che portano a quella che qualcuno ha definito la disneyfication del discorso storico, dove lo spettacolo e il sensazionalismo prevalgono su ogni significato» (p. 111, dove Ravveduto riprende le parole dello storico Paolo Bertella Farnetti).
«Se lo storico accademico è uno scienziato che domina la teoria, il public historian e l’insegnante sono tecnici che usano la scienza per renderla utile ai “consumatori”» (p. 112). Il consiglio è dunque quello di importare «nella scuola le pratiche di diffusione della storia che ritroviamo nei festival, nelle rievocazioni, nei documentari, nei film, nei programmi televisivi e nelle piattaforme digitali» (p. 113, dove Ravveduto riprende le parole dello storico Andrea Zannini).
Il capitolo quarto è dedicato a Le sfide della didattica della storia (pp. 122-147). La principale è questa: a scuola – intesa come luogo dove si impara a pensare criticamente – si dovrebbe imparare anche che la storia e il mestiere di storico hanno una funzione sociale, entrando in gioco nella definizione e soluzione di problemi concreti; perciò «è necessario che la didattica si fondi su esempi pratici, applicabili alla risoluzione di problemi collettivi» (p. 145). Idealmente almeno una parte del lavoro in classe dovrebbe avere ricadute, almeno potenziali, verso l’esterno (traducendosi per esempio in una mostra, o in una ricerca su questioni che riguardano la collettività). La formazione di una cittadinanza attiva passa anche per una «democratizzazione» della storia e dei suoi metodi. Oggi, perché riesca la trasmissione di questa consapevolezza e di conoscenza storica, è necessario che chi insegna si confronti su come la storia «raggiunge» i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi che ha davanti in classe: «dai media elettronici ai fumetti, dagli oggetti presenti in casa ai racconti dei nonni, dalle vacanze con la famiglia ai videogiochi» (p. 139); inoltre, deve essere preparato a fronteggiare i linguaggi e le tecniche di quei concorrenti che sono il web e la comunicazione social.
Risorse per la didattica
La terza parte del libro, Le risorse per la didattica della storia (capitoli 5-7), è una rassegna di fonti e strumenti per la didattica (curata da Igor Pizzirusso, tranne due paragrafi del cap. 5, firmati da Ravveduto).
Paragrafi e sottoparagrafi scandiscono un’analisi che si propone di essere operativa, con suggerimenti e avvertenze per l’uso. Tra decine di paragrafi e sottoparagrafi, stupisce un po’ non trovare uno spazio dedicato specificamente alla storia orale, che pure è stata a lungo un terreno privilegiato dalla didattica della storia e oggi ha un forte rapporto con la public history.
Nel capitolo quinto (pp. 151-186) si illustrano risorse quali gli audiovisivi, le fonti iconografiche, gli oggetti e il patrimonio culturale che ci circonda, di nuovo con molti spunti che riportano sul terreno della public history (si vedano in particolare le pp. 183-186 dedicate ai musei storici e la loro funzione di edutainment, ovvero educazione e intrattenimento) e dunque anche al rapporto che le attività a scuola possono allacciare con il territorio in cui essa si trova.
Coerentemente con quanto illustrato nelle altre parti del libro, il capitolo su Le risorse digitali (pp. 187-235) si apre con una serie di considerazioni sulla «frequentazione», l’uso, i meccanismi di funzionamento della comunicazione su web e social media: la media education è diventa un prerequisito per tutti; per chi insegna ha inoltre «lo scopo di restituire centralità al loro ruolo, di trasformarli in un nuovo medium che possa stare al passo con gli altri» (p. 193). Si analizzano tre usi diversi del web: come luogo da cui attingere informazioni e contenuti; come luogo in cui produrre contenuti autonomi; come spazio e come risorsa per «potenziare» la didattica. Sono utili le pp. 212-216 dedicate all’Intelligenza artificiale generativa: un invito a non demonizzarla, a capire come funziona e a prenderla in contropiede, per esempio testandone l’affidabilità, confrontando i risultati con quelli che si ottengono da altre fonti.
A I giochi (digitali e analogici) è dedicato tutto il capitolo 7 (pp. 236-258), scelta giustificata dal fatto che «l’industria ludica è in costante ascesa […] il comparto videoludico […] è diventato la principale fonte di intrattenimento» (p. 236), e anche nei musei il gioco è utilizzato «per il coinvolgimento del pubblico e la fruizione della conoscenza» (p. 238). Nella riflessione sui giochi come «fonti didattiche per la storia» non vanno esclusi «i videogiochi commerciali e mainstream», anche perché la storia «entra […] a vario titolo in moltissimi di questi prodotti, ed è anzi un elemento fondamentale in quelli più diffusi» (pp. 244-245).
Qualora l’insegnante volesse tentare di diventare anche un «game master», ovvero ideare giochi originali, Pizzirusso fornisce alcune linee guida (pp. 249-256), con un’avvertenza: «Tutta questa attività ha un presupposto fondamentale: l’insegnante deve conoscere l’argomento storico [prescelto per l’attività ludica] molto più di quanto non sia contenuto nel manuale» (p. 251).
Paragrafi e sottoparagrafi scandiscono un’analisi che si propone di essere operativa, con suggerimenti e avvertenze per l’uso. Tra decine di paragrafi e sottoparagrafi, stupisce un po’ non trovare uno spazio dedicato specificamente alla storia orale, che pure è stata a lungo un terreno privilegiato dalla didattica della storia e oggi ha un forte rapporto con la public history.
Nel capitolo quinto (pp. 151-186) si illustrano risorse quali gli audiovisivi, le fonti iconografiche, gli oggetti e il patrimonio culturale che ci circonda, di nuovo con molti spunti che riportano sul terreno della public history (si vedano in particolare le pp. 183-186 dedicate ai musei storici e la loro funzione di edutainment, ovvero educazione e intrattenimento) e dunque anche al rapporto che le attività a scuola possono allacciare con il territorio in cui essa si trova.
Coerentemente con quanto illustrato nelle altre parti del libro, il capitolo su Le risorse digitali (pp. 187-235) si apre con una serie di considerazioni sulla «frequentazione», l’uso, i meccanismi di funzionamento della comunicazione su web e social media: la media education è diventa un prerequisito per tutti; per chi insegna ha inoltre «lo scopo di restituire centralità al loro ruolo, di trasformarli in un nuovo medium che possa stare al passo con gli altri» (p. 193). Si analizzano tre usi diversi del web: come luogo da cui attingere informazioni e contenuti; come luogo in cui produrre contenuti autonomi; come spazio e come risorsa per «potenziare» la didattica. Sono utili le pp. 212-216 dedicate all’Intelligenza artificiale generativa: un invito a non demonizzarla, a capire come funziona e a prenderla in contropiede, per esempio testandone l’affidabilità, confrontando i risultati con quelli che si ottengono da altre fonti.
A I giochi (digitali e analogici) è dedicato tutto il capitolo 7 (pp. 236-258), scelta giustificata dal fatto che «l’industria ludica è in costante ascesa […] il comparto videoludico […] è diventato la principale fonte di intrattenimento» (p. 236), e anche nei musei il gioco è utilizzato «per il coinvolgimento del pubblico e la fruizione della conoscenza» (p. 238). Nella riflessione sui giochi come «fonti didattiche per la storia» non vanno esclusi «i videogiochi commerciali e mainstream», anche perché la storia «entra […] a vario titolo in moltissimi di questi prodotti, ed è anzi un elemento fondamentale in quelli più diffusi» (pp. 244-245).
Qualora l’insegnante volesse tentare di diventare anche un «game master», ovvero ideare giochi originali, Pizzirusso fornisce alcune linee guida (pp. 249-256), con un’avvertenza: «Tutta questa attività ha un presupposto fondamentale: l’insegnante deve conoscere l’argomento storico [prescelto per l’attività ludica] molto più di quanto non sia contenuto nel manuale» (p. 251).
Riflessioni e Indicazioni
La quarta parte del libro è occupata da Una riflessione conclusiva su Il palcoscenico della storia (pp. 261-275, firmata da Ravveduto). Filo conduttore è Gli studenti di storia, opera teatrale del drammaturgo britannico Alan Bennett. Si potrebbe discutere su come Ravveduto si muove tra i ruoli e le ambiguità di quegli insegnanti e studenti di una scuola nell’Inghilterra degli anni Ottanta del XX secolo, messi in scena da Bennett mentre stanno preparando il concorso di ammissione a una prestigiosa università. Limitiamoci qui all’essenziale: in sostanza l’autore sottolinea le potenzialità didattiche del «fare teatro». Si ricorda (p. 262) l’esempio concreto di un’esperienza in una scuola francese nel 2013: da un libro di storiografia sull’incontro tra gli europei e gli «altri» nel Cinquecento fu ricavato un copione teatrale. Ma soprattutto l’autore fa leva sulla metafora della classe come pubblico che l’insegnante, «regista della didattica», deve rendere attivamente partecipe allo «spettacolo» della storia (p. 275), o meglio della ricerca (è una criptocitazione da Marc Bloch): «Bisogna superare la comfort zone [della lezione frontale] dell’esercizio mnemonico e dell’espressione orale per sperimentare la strada della mediazione didattica: la simulazione della ricerca storica, su fonti selezionate con criteri didattici, è parte sostanziale della performance didattica, tesa a coinvolgere gli studenti nella “recita” collettiva» (p. 274).
Infine, la quinta parte del libro è Un’appendice (firmata da Andrea Miccichè) dedicata a un’analisi delle Indicazioni nazionali del 2012 per il primo ciclo e la scuola media, di quelle per i licei e le linee guida per gli istituti tecnici e professionali varate tra 2010 e 2012. Gli autori sapevano che, mentre stavano chiudendo il libro (estate 2024), il ministero aveva dato inizio alla revisione di questi documenti. Sono pagine che quindi ora si leggono come contributo indiretto alla discussione in corso, e che in futuro si trasformeranno in un contributo alla storia della scuola (interessante il confronto tra i licei e gli altri istituti superiori dove si mettono in luce le forme più aggiornate di gerarchie antiche) e della pedagogia in Italia. Miccichè si fa portavoce di un giudizio nel complesso positivo su come sono impostate le Indicazioni del 2012, che tuttavia contengono anche punti critici e trovano un limite in formulazioni troppo astratte o generiche, soprattutto a fronte del fatto che i docenti, in genere, non hanno competenze, conoscenze, possibilità di formazione e aggiornamento tali da permettere loro di costruire progetti didattici coerenti con gli strumenti e gli obiettivi indicati, finendo così per rifugiarsi nel manuale. Un’ulteriore considerazione diventa un’utile indicazione di metodo per ricerche sulla scuola: non si conoscono gli effetti concreti generati, nel corso di almeno un decennio, dal passaggio dai programmi prescrittivi alle Indicazioni, non si sa «se queste novità si siano effettivamente tradotte in impostazioni e scelte didattiche reali, se non attraverso quella mediazione manualistica a cui abbiamo ripetutamente fatto riferimento» (p. 280).
Infine, la quinta parte del libro è Un’appendice (firmata da Andrea Miccichè) dedicata a un’analisi delle Indicazioni nazionali del 2012 per il primo ciclo e la scuola media, di quelle per i licei e le linee guida per gli istituti tecnici e professionali varate tra 2010 e 2012. Gli autori sapevano che, mentre stavano chiudendo il libro (estate 2024), il ministero aveva dato inizio alla revisione di questi documenti. Sono pagine che quindi ora si leggono come contributo indiretto alla discussione in corso, e che in futuro si trasformeranno in un contributo alla storia della scuola (interessante il confronto tra i licei e gli altri istituti superiori dove si mettono in luce le forme più aggiornate di gerarchie antiche) e della pedagogia in Italia. Miccichè si fa portavoce di un giudizio nel complesso positivo su come sono impostate le Indicazioni del 2012, che tuttavia contengono anche punti critici e trovano un limite in formulazioni troppo astratte o generiche, soprattutto a fronte del fatto che i docenti, in genere, non hanno competenze, conoscenze, possibilità di formazione e aggiornamento tali da permettere loro di costruire progetti didattici coerenti con gli strumenti e gli obiettivi indicati, finendo così per rifugiarsi nel manuale. Un’ulteriore considerazione diventa un’utile indicazione di metodo per ricerche sulla scuola: non si conoscono gli effetti concreti generati, nel corso di almeno un decennio, dal passaggio dai programmi prescrittivi alle Indicazioni, non si sa «se queste novità si siano effettivamente tradotte in impostazioni e scelte didattiche reali, se non attraverso quella mediazione manualistica a cui abbiamo ripetutamente fatto riferimento» (p. 280).
Un libro per la scuola?
Il libro di Miccichè, Pizzirusso e Ravveduto ha una struttura complessa, un po’ ridondante e appesantita da un eccessivo ricorso alla metafora.
Solo chi insegna potrà dire se gli autori raggiungono l’obiettivo dichiarato in apertura, ovvero rispondere alle «esigenze quotidiane dell’insegnante di storia»; ma si può dire che probabilmente, per affrontare la giornata in classe, l’insegnante dovrà prima di tutto trovare un modo per riordinare le idee di fronte a un’offerta tanto esuberante. Alla luce della lucida analisi delle Indicazioni del 2012, persino l’insegnante ideale che il libro delinea, autonomo e attrezzato, avrebbe bisogno di linee guida più chiare e circoscritte, a partire da una selezione dei contenuti e dei percorsi tematici da affrontare poi con «creatività e rigore scientifico» (p. 111).
Studenti e studentesse che devono sostenere un esame di didattica della storia avranno invece certamente un quadro aggiornato della disciplina e dei suoi scopi, e alcuni rudimenti essenziali di metodo storiografico.
Anche il mondo dell’editoria scolastica viene sollecitato da questo libro, in primo luogo a partecipare con prodotti accurati alla proposta di formazione (continua), di aggiornamento e di supporto alla didattica.
Per quanto ci riguarda, il libro ha il pregio di delineare i contorni di questioni ampie, che vanno dalla formazione professionale dell’insegnante (a cui viene richiesta padronanza dei fondamenti della disciplina e competenze didattiche che ne fanno di volta in volta un maieuta, un «mediatore», un «facilitatore», un public historian, un «nuovo medium», un game master, un «regista della didattica»…) al «mercato della storia» in cui siamo immersi. Peraltro, sarebbe stata forse opportuna qualche riga di analisi in più sulle tante sfaccettature di questo «mercato», che ha dimensioni diverse, e alcune non mercantili: dall’uso pubblico della storia al marketing (anche quello turistico e territoriale), dall’intrattenimento alle istanze che sorgono dai movimenti per i diritti civili e dall’attivismo politico. Proprio per la ricchezza del libro e la complessità della materia, sono molti altri i punti di discussione che restano aperti, per esempio: il rapporto (se c’è) tra «emozione» e «passione per la storia» (da suscitare in primo luogo in chi la insegna); la necessità di recuperare strumenti analogici quali la lettura e la scrittura (come gli autori sanno: «allenare gli studenti a confrontarsi con testi complessi, cosa di cui si sente sempre più la necessità», p. 211); il fatto che a biblioteche e archivi sia dedicato solo qualche cenno cursorio; i mercati in cui oggi è immersa la scuola, non solo quello della storia, ma anche della formazione e delle forniture di attrezzature digitali (molti degli esempi didattici degli autori sono progetti costruiti da soggetti terzi per la scuola: l’autonomia dell’insegnante sarebbe quella di sapere orientarsi nella scelta tra le decine se non centinaia di offerte che ogni anno sono recapitate alle scuole?).
Anche gli autori sanno che molte delle loro proposte per l’insegnamento della storia hanno limiti pratici, a cominciare dal tempo che richiedono (vari esempi nei capitoli 2 e 6), ma si potrebbero evocare altre variabili altrettanto strutturali che si declinano caso per caso, e che questo libro ovviamente non può prendere in considerazione (collocazione geografica – il sistema scolastico rispecchia le disuguaglianze territoriali – e rapporto con il territorio, organizzazione e attrezzature a disposizione, tetti di spesa, stabilità o precarietà di chi insegna a scuola, rapporti nel collegio docente o nel dipartimento anche perché è importante l’interdisciplinarietà…).
Naturalmente il libro ha anche la funzione positiva di promuovere una scuola e una modalità di fare scuola che ancora non esiste, o, se sì, solo in minima parte. Ci sono però alcuni passaggi che suscitano perplessità perché l’entusiasmo delle proposte è fin troppo spinto. Un solo esempio: «Tanto gli insegnanti quanto gli studenti devono agire come professionisti che vivono “nel mondo reale”, accrescendo conoscenze e competenze in campo storico nel momento stesso in cui realizzano il progetto didattico. L’insegnante aiuta gli alunni a riflettere sui diversi e mutevoli ruoli che ognuno ricopre, conservando immutata la tensione a quella che è, e rimane, la loro principale attività: conoscere per crescere» (pp. 120-121).
Sono andato a rileggere quanto scriveva qualche mese fa Enrico Manera, un insegnante di scuola superiore che da anni collabora con l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza: «La retorica ottimistica verso una trasformazione delle didattiche sembra ignorare troppi elementi di realtà: partono dal presupposto di avere a che fare [in classe] con soggetti razionalmente maturi e responsabili, motivati, entusiasti e impegnati attorno a un’idea di performance che sembra modellata sull’efficienza richiesta a un dipendente o un professionista realizzato».
Anche ragazzi e ragazze destinatari dei metodi didattici a scuola dovranno dirci se il libro è riuscito oppure no. Arrivati al termine della lettura, resta il desiderio di avere buone cronache (didattiche e non) dalle scuole: potrebbero aiutare anche la discussione sulla storiografia e sulla didattica della storia.
Solo chi insegna potrà dire se gli autori raggiungono l’obiettivo dichiarato in apertura, ovvero rispondere alle «esigenze quotidiane dell’insegnante di storia»; ma si può dire che probabilmente, per affrontare la giornata in classe, l’insegnante dovrà prima di tutto trovare un modo per riordinare le idee di fronte a un’offerta tanto esuberante. Alla luce della lucida analisi delle Indicazioni del 2012, persino l’insegnante ideale che il libro delinea, autonomo e attrezzato, avrebbe bisogno di linee guida più chiare e circoscritte, a partire da una selezione dei contenuti e dei percorsi tematici da affrontare poi con «creatività e rigore scientifico» (p. 111).
Studenti e studentesse che devono sostenere un esame di didattica della storia avranno invece certamente un quadro aggiornato della disciplina e dei suoi scopi, e alcuni rudimenti essenziali di metodo storiografico.
Anche il mondo dell’editoria scolastica viene sollecitato da questo libro, in primo luogo a partecipare con prodotti accurati alla proposta di formazione (continua), di aggiornamento e di supporto alla didattica.
Per quanto ci riguarda, il libro ha il pregio di delineare i contorni di questioni ampie, che vanno dalla formazione professionale dell’insegnante (a cui viene richiesta padronanza dei fondamenti della disciplina e competenze didattiche che ne fanno di volta in volta un maieuta, un «mediatore», un «facilitatore», un public historian, un «nuovo medium», un game master, un «regista della didattica»…) al «mercato della storia» in cui siamo immersi. Peraltro, sarebbe stata forse opportuna qualche riga di analisi in più sulle tante sfaccettature di questo «mercato», che ha dimensioni diverse, e alcune non mercantili: dall’uso pubblico della storia al marketing (anche quello turistico e territoriale), dall’intrattenimento alle istanze che sorgono dai movimenti per i diritti civili e dall’attivismo politico. Proprio per la ricchezza del libro e la complessità della materia, sono molti altri i punti di discussione che restano aperti, per esempio: il rapporto (se c’è) tra «emozione» e «passione per la storia» (da suscitare in primo luogo in chi la insegna); la necessità di recuperare strumenti analogici quali la lettura e la scrittura (come gli autori sanno: «allenare gli studenti a confrontarsi con testi complessi, cosa di cui si sente sempre più la necessità», p. 211); il fatto che a biblioteche e archivi sia dedicato solo qualche cenno cursorio; i mercati in cui oggi è immersa la scuola, non solo quello della storia, ma anche della formazione e delle forniture di attrezzature digitali (molti degli esempi didattici degli autori sono progetti costruiti da soggetti terzi per la scuola: l’autonomia dell’insegnante sarebbe quella di sapere orientarsi nella scelta tra le decine se non centinaia di offerte che ogni anno sono recapitate alle scuole?).
Anche gli autori sanno che molte delle loro proposte per l’insegnamento della storia hanno limiti pratici, a cominciare dal tempo che richiedono (vari esempi nei capitoli 2 e 6), ma si potrebbero evocare altre variabili altrettanto strutturali che si declinano caso per caso, e che questo libro ovviamente non può prendere in considerazione (collocazione geografica – il sistema scolastico rispecchia le disuguaglianze territoriali – e rapporto con il territorio, organizzazione e attrezzature a disposizione, tetti di spesa, stabilità o precarietà di chi insegna a scuola, rapporti nel collegio docente o nel dipartimento anche perché è importante l’interdisciplinarietà…).
Naturalmente il libro ha anche la funzione positiva di promuovere una scuola e una modalità di fare scuola che ancora non esiste, o, se sì, solo in minima parte. Ci sono però alcuni passaggi che suscitano perplessità perché l’entusiasmo delle proposte è fin troppo spinto. Un solo esempio: «Tanto gli insegnanti quanto gli studenti devono agire come professionisti che vivono “nel mondo reale”, accrescendo conoscenze e competenze in campo storico nel momento stesso in cui realizzano il progetto didattico. L’insegnante aiuta gli alunni a riflettere sui diversi e mutevoli ruoli che ognuno ricopre, conservando immutata la tensione a quella che è, e rimane, la loro principale attività: conoscere per crescere» (pp. 120-121).
Sono andato a rileggere quanto scriveva qualche mese fa Enrico Manera, un insegnante di scuola superiore che da anni collabora con l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza: «La retorica ottimistica verso una trasformazione delle didattiche sembra ignorare troppi elementi di realtà: partono dal presupposto di avere a che fare [in classe] con soggetti razionalmente maturi e responsabili, motivati, entusiasti e impegnati attorno a un’idea di performance che sembra modellata sull’efficienza richiesta a un dipendente o un professionista realizzato».
Anche ragazzi e ragazze destinatari dei metodi didattici a scuola dovranno dirci se il libro è riuscito oppure no. Arrivati al termine della lettura, resta il desiderio di avere buone cronache (didattiche e non) dalle scuole: potrebbero aiutare anche la discussione sulla storiografia e sulla didattica della storia.
Letture intorno al libro
La citazione di Enrico Manera è dal suo articolo online Studenti e docenti uniti nell’ansia, in «doppiozero», 6 novembre 2024.
Di Alan Bennett, Gli studenti di storia, trad. di Maria Grazia Gini, Adelphi, Milano 2012 si suggerisce di recuperare almeno l’ultima battuta, affidata al fantasma del professor Hector, a p. 178.
Si veda anche Serge Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, trad. e cura di M.M. Benzoni, Milano, Raffaello Cortina, 2016; l’ed. or. (L’histoire, pour quoi faire?, Fayard, Parigi 2015) prevedeva un’appendice dove Laurent Guitton, allora insegnante in un liceo di Roubaix, tornava su un’esperienza didattica fatta con i suoi allievi nel 2013, ovvero «mettere in scena» un altro libro di Gruzinski, L’aigle et le dragon. Démesure européenne et mondialisation au XVIe siècle (Fayard, Parigi 2011); una versione di questa appendice si legge (in francese) online: https://blogs.histoireglobale.com/author/laurent-guitton.
Le Nuove Indicazioni (Materiali per il dibattito pubblico) si leggono qui. Rimandiamo anche alle riflessioni sul curricolo di storia pubblicate su questo spazio online.
Per inquadrare alcuni temi fondamentali del libro, possono essere utili:
Piero Brunello, Introduzione, in Id., Dubbi sull’esistenza di Mestre. Esercizi di storia urbana, Cierre edizioni, Sommacampagna (Verona) 2023, pp. 9-20.
Luca Pes, Elogio della ricerca, in «Altrochemestre», 2, autunno 1994, pp. 11-12.
Francesca Trivellato, Microstoria e storia globale, trad. di Filippo Benfante, Officina Libraria, Roma 2023, in particolare i capitoli 1 (Dai margini) e 3 (Una nuova battaglia per la storia nel XXI secolo?).
Di Alan Bennett, Gli studenti di storia, trad. di Maria Grazia Gini, Adelphi, Milano 2012 si suggerisce di recuperare almeno l’ultima battuta, affidata al fantasma del professor Hector, a p. 178.
Si veda anche Serge Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, trad. e cura di M.M. Benzoni, Milano, Raffaello Cortina, 2016; l’ed. or. (L’histoire, pour quoi faire?, Fayard, Parigi 2015) prevedeva un’appendice dove Laurent Guitton, allora insegnante in un liceo di Roubaix, tornava su un’esperienza didattica fatta con i suoi allievi nel 2013, ovvero «mettere in scena» un altro libro di Gruzinski, L’aigle et le dragon. Démesure européenne et mondialisation au XVIe siècle (Fayard, Parigi 2011); una versione di questa appendice si legge (in francese) online: https://blogs.histoireglobale.com/author/laurent-guitton.
Le Nuove Indicazioni (Materiali per il dibattito pubblico) si leggono qui. Rimandiamo anche alle riflessioni sul curricolo di storia pubblicate su questo spazio online.
Per inquadrare alcuni temi fondamentali del libro, possono essere utili:
Piero Brunello, Introduzione, in Id., Dubbi sull’esistenza di Mestre. Esercizi di storia urbana, Cierre edizioni, Sommacampagna (Verona) 2023, pp. 9-20.
Luca Pes, Elogio della ricerca, in «Altrochemestre», 2, autunno 1994, pp. 11-12.
Francesca Trivellato, Microstoria e storia globale, trad. di Filippo Benfante, Officina Libraria, Roma 2023, in particolare i capitoli 1 (Dai margini) e 3 (Una nuova battaglia per la storia nel XXI secolo?).