Come agisce un filosofo? Socrate, Gorgia e la responsabilità umana
Giornata mondiale della Filosofia
Socrate e il ruolo della conoscenza
Con la tesi secondo cui nessuno sbaglia volontariamente, Socrate rovesciava le idee morali convenzionali. La cultura greca aveva elaborato esempi potenti del conflitto che esiste tra ciò che riconosciamo come buono e ciò che, malgrado tutto, siamo spinti a fare dai nostri impulsi irrazionali. In una celebre tragedia di Euripide, la protagonista Medea si accinge a compiere il più orribile dei misfatti che una madre possa commettere: uccidere i propri figli. Così Euripide esprime il suo tormento interiore:
"Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte in me di ogni altro volere (vv. 1078-1080).
Non bisogna però pensare solo a situazioni estreme e drammatiche. Ciascuno sa, per esempio, che è male viaggiare in treno senza biglietto, copiare a scuola, mentire agli amici. Eppure, spesso si compiono simili azioni a causa di impulsi che hanno ben poco a che fare con la razionalità (l’avidità di denaro, la brama di piacere, l’ambizione). Oppure si continua a fumare per il piacere che si prova, pur sapendo perfettamente che fumare fa male alla salute. Per Socrate, invece, se si sa davvero che qualcosa è bene, allora inevitabilmente si agirà di conseguenza. Se invece si agisce in un modo ingiusto o malvagio, il motivo è che non si conosce abbastanza quello che è giusto o buono. Il problema nasce quando caliamo la tesi socratica nell’esperienza quotidiana, perché essa sembra giustificare ogni azione, sottraendo agli uomini la responsabilità morale. Per lui, se un uomo davvero sa che qualcosa è bene, allora inevitabilmente agirà di conseguenza. Se invece si agisce in un modo ingiusto o malvagio, il motivo è che non si conosce abbastanza quello che è giusto o buono. Ogni azione sembra giustificabile: alla fine, ciascuno potrà sempre ribattere a chi lo accusa che la sua innocenza è data dal fatto che non sapeva bene che cosa stesse facendo. Nessuno potrebbe rispondere, a questo punto: “Invece lo sapevi, ma hai comunque scelto di agire diversamente”.
"Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte in me di ogni altro volere (vv. 1078-1080).
Non bisogna però pensare solo a situazioni estreme e drammatiche. Ciascuno sa, per esempio, che è male viaggiare in treno senza biglietto, copiare a scuola, mentire agli amici. Eppure, spesso si compiono simili azioni a causa di impulsi che hanno ben poco a che fare con la razionalità (l’avidità di denaro, la brama di piacere, l’ambizione). Oppure si continua a fumare per il piacere che si prova, pur sapendo perfettamente che fumare fa male alla salute. Per Socrate, invece, se si sa davvero che qualcosa è bene, allora inevitabilmente si agirà di conseguenza. Se invece si agisce in un modo ingiusto o malvagio, il motivo è che non si conosce abbastanza quello che è giusto o buono. Il problema nasce quando caliamo la tesi socratica nell’esperienza quotidiana, perché essa sembra giustificare ogni azione, sottraendo agli uomini la responsabilità morale. Per lui, se un uomo davvero sa che qualcosa è bene, allora inevitabilmente agirà di conseguenza. Se invece si agisce in un modo ingiusto o malvagio, il motivo è che non si conosce abbastanza quello che è giusto o buono. Ogni azione sembra giustificabile: alla fine, ciascuno potrà sempre ribattere a chi lo accusa che la sua innocenza è data dal fatto che non sapeva bene che cosa stesse facendo. Nessuno potrebbe rispondere, a questo punto: “Invece lo sapevi, ma hai comunque scelto di agire diversamente”.
Gorgia e la forza dei condizionamenti
La posizione di Socrate non sembra così diversa da quella del sofista Gorgia. Nell’Encomio di Elena, Gorgia si propone di mostrare che Elena non è stata padrona delle sue azioni. Qualunque sia la causa che l’ha indotta a comportarsi in quel modo, la donna è innocente. Che il rapimento sia avvenuto per volere degli dèi o per un’azione violenta da parte di qualcuno, si tratta comunque di una pressione esercitata da chi è più forte su chi è più debole. Se Elena è stata persuasa da un discorso pronunciato da Paride, anche in questo caso è innocente, perché la forza del linguaggio è assimilabile a quella di un “signore potentissimo”. Infine, se è eros, l’amore, il responsabile dell’agire di Elena, anche in tal caso non va biasimata: neppure il potente Zeus ne è immune.
La responsabilità morale
Socrate e Gorgia sembrano arrivare per due strade diverse alla stessa conclusione: non c’è responsabilità morale. Ma è davvero così? La posizione di Gorgia è molto attuale. Sperimentiamo tutti i giorni come vi siano condizionamenti fortissimi rispetto a quello che facciamo. Il discorso “signore potentissimo” di cui parla Gorgia si ritrova oggi nella propaganda, nella pubblicità, in quei messaggi che vogliono dominare sulla nostra capacità di giudizio e di valutazione. Rispetto a essi, sembra talvolta del tutto impossibile resistere, proprio come era accaduto a Elena davanti alle parole di Paride. Non a caso, la concezione del linguaggio di Gorgia è stata avvicinata alle teorie della comunicazione pubblicitaria. A questo proposito, sono molto interessanti le osservazioni dello studioso inglese George Kerferd:
Da una parte c’è il mondo reale, denominato “verità” o “ciò che è vero”. La cognizione di tale mondo reale è la conoscenza. Ma la condizione più comune non è la conoscenza, ma l’opinione, ed il logos – che è più potente dell’opinione – influisce su di essa. Entrambi sono ingannevoli, in antitesi con la verità e la conoscenza. Ma è possibile appellarsi contro gli inganni del logos e dell’opinione alla conoscenza ed alla verità. Il risultato che se ne ottiene, pur procurando la conoscenza, non elimina il carattere inguaribilmente illusorio del logos, che non può mai essere la realtà che pretende di esprimere. Tuttavia, esistono due tipi di logos: uno migliore ed uno peggiore. La superiorità di un logos su di un altro non è casuale, ma dipende dalla presenza di specifici caratteri. Lo studio di essi è lo studio dell’arte della retorica, e dal loro riuscito sviluppo deriva il potere del logos sugli animi che nel Fedro di Platone (261a) è detto psychagoghia, cioè “vittoria sugli animi”. Nello stesso Fedro poco più avanti (267a) si asserisce che la forza del logos fa sembrare grandi le cose piccole e piccole le grandi, e che il logos è capace di mostrare cose recenti sotto un aspetto vecchio e di presentare cose vecchie in una forma nuova. […] L’importanza in retorica del kairos, cioè della scelta del momento opportuno, è sottolineata da molte [...] testimonianze; […] il kairos non è qualcosa che si ottiene con la conoscenza: pertiene piuttosto all’opinione. Se combiniamo le teorie del “probabile” o “plausibile” e del “momento opportuno”, in relazione all’opinione (o “ciò che l’uomo pensa o crede”), è chiaro che ci sono già gli elementi di una teoria della retorica in grado di reggere il confronto con le moderne trattazioni di tecnica pubblicitaria. In effetti è forse possibile comprendere meglio la retorica – un termine oggi fuori moda – se si considera che ricopriva nell’antichità l’intera sfera delle pubbliche relazioni e della presentazione di immagini. E i sofisti inaugurarono la teoria di quest’arte (G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it. Bologna 1997).
Secondo una famosa massima attribuita al nazista Joseph Goebbels, una menzogna ripetuta più volte diventa una verità. Ma è possibile resistere a tutto ciò? Gorgia direbbe, probabilmente, di no. O, per meglio dire, è difficile trovare nella sua filosofia buoni argomenti per ribattere a chi sostiene che gli uomini sono plagiati da messaggi a cui non possono in alcun modo resistere.
Da una parte c’è il mondo reale, denominato “verità” o “ciò che è vero”. La cognizione di tale mondo reale è la conoscenza. Ma la condizione più comune non è la conoscenza, ma l’opinione, ed il logos – che è più potente dell’opinione – influisce su di essa. Entrambi sono ingannevoli, in antitesi con la verità e la conoscenza. Ma è possibile appellarsi contro gli inganni del logos e dell’opinione alla conoscenza ed alla verità. Il risultato che se ne ottiene, pur procurando la conoscenza, non elimina il carattere inguaribilmente illusorio del logos, che non può mai essere la realtà che pretende di esprimere. Tuttavia, esistono due tipi di logos: uno migliore ed uno peggiore. La superiorità di un logos su di un altro non è casuale, ma dipende dalla presenza di specifici caratteri. Lo studio di essi è lo studio dell’arte della retorica, e dal loro riuscito sviluppo deriva il potere del logos sugli animi che nel Fedro di Platone (261a) è detto psychagoghia, cioè “vittoria sugli animi”. Nello stesso Fedro poco più avanti (267a) si asserisce che la forza del logos fa sembrare grandi le cose piccole e piccole le grandi, e che il logos è capace di mostrare cose recenti sotto un aspetto vecchio e di presentare cose vecchie in una forma nuova. […] L’importanza in retorica del kairos, cioè della scelta del momento opportuno, è sottolineata da molte [...] testimonianze; […] il kairos non è qualcosa che si ottiene con la conoscenza: pertiene piuttosto all’opinione. Se combiniamo le teorie del “probabile” o “plausibile” e del “momento opportuno”, in relazione all’opinione (o “ciò che l’uomo pensa o crede”), è chiaro che ci sono già gli elementi di una teoria della retorica in grado di reggere il confronto con le moderne trattazioni di tecnica pubblicitaria. In effetti è forse possibile comprendere meglio la retorica – un termine oggi fuori moda – se si considera che ricopriva nell’antichità l’intera sfera delle pubbliche relazioni e della presentazione di immagini. E i sofisti inaugurarono la teoria di quest’arte (G.B. Kerferd, I sofisti, trad. it. Bologna 1997).
Secondo una famosa massima attribuita al nazista Joseph Goebbels, una menzogna ripetuta più volte diventa una verità. Ma è possibile resistere a tutto ciò? Gorgia direbbe, probabilmente, di no. O, per meglio dire, è difficile trovare nella sua filosofia buoni argomenti per ribattere a chi sostiene che gli uomini sono plagiati da messaggi a cui non possono in alcun modo resistere.
Il dovere della ricerca
Socrate potrebbe uscire da simili difficoltà? Probabilmente egli risponderebbe che sì, è vero: molti messaggi che riceviamo ci invitano a delinquere e ad anteporre il facile profitto al faticoso guadagno ottenuto in modo onesto. Tuttavia, c’è un dovere supremo a cui nessuno può sottrarsi: quello di ricercare sempre ciò che è meglio non fermandosi alle apparenze. È quello che dice Socrate a Critone che lo invita a fuggire dal carcere:
Caro Critone, la tua sollecitudine potrebbe avere grande valore se fosse unita a una certa correttezza. In caso contrario, quanto più è forte tanto più è gravosa. È dunque necessario che noi indaghiamo se bisogna agire così oppure no. Poiché io, non ora per la prima volta ma da sempre, sono tale da non dar retta a nient’altro di me se non alla ragione che al mio esame appaia migliore. Ora non posso certo, per il fatto che mi è toccata questa sorte, respingere i ragionamenti del passato, ma mi sembrano più o meno gli stessi, e li tengo in conto e li onoro come prima. E se ora non siamo in grado di farne di migliori, sappi che non ti darò mai il mio consenso, neppure se ancora più di adesso il potere dei più ci spaventasse come bambini, con lo spauracchio di prigioni, condanne a morte e confische di beni (Platone, Critone, 46b-c, trad. A. Taglia).
Gabriele Giannantoni, uno dei massimi interpreti di Socrate, descrive così la posizione socratica:
Socrate è convinto, come sta ad attestare la doverosità del dialéghesthai [dialogare] e dell’exetazein [sottoporre a esame], che ciascun uomo agisce in funzione del suo proprio convincimento e di una sua propria prospettiva. Da questo punto di vista nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male […], ma ciascuno agisce sempre in funzione di quello che egli crede che sia il bene e il meglio per lui. Per questo aspetto Socrate rinnova il soggetivismo dei sofisti: dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali non si esce. E tuttavia queste valutazioni, questi gusti e queste preferenze entrano in quel comune giudicare e criticare che si attua nel dialéghesthai, in cui ciascuno deve poter ritrovare l’esistenza di criteri comuni e validi universalmente. E in tal modo l’individualità della propria preferenza vien superata dalla necessità che questa preferenza possa valere anche per tutti gli altri. Fare il male vuoi dire quindi seguire un bene apparente e particolare invece del bene reale e universale, dal momento che è impossibile fare il bene se non si conosce che cosa esso sia. È questo il significato della famosa equazione di scienza e virtù, cioè il cosiddetto intellettualismo etica di Socrate, che non è da intendere nel senso di una affermazione di una priorità e di una prevalenza della ragione sulla volontà, della teoria sulla prassi; queste distinzioni su cui tanto si affaticherà la psicologia platonica non compaiono ancora nell’orizzonte mentale socratico, dove vale invece l’idea che l’agire non può non essere consapevole, cioè accompagnato da conoscenza. Solo su questi presupposti, d’altronde, e non su quelli dei sofisti, è possibile fondare la dottrina dell’insegnabilità della virtù, in quanto identica alla scienza. Da questo punto di vista, tutte le virtù particolari, come il “coraggio” , la “temperanza”, la “religiosità”, la “giustizia”, ecc. che sono al centro delle discussioni di Socrate nei dialoghi giovanili di Platone, non sono definibili particolarmente, ciascuna per sé (onde il carattere apparentemente “non conclusivo”, aporetico, dei dialoghi platonici in cui di esse si discute), ma devono essere tutte ricondotte a quell’unica “virtù in generale che è la scienza del bene e del male” […], cioè di ciò che ci si presenta come sommamente preferibile ed attraente, e di ciò che ci si presenta come sommamente dannoso e disdicevole. Perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è assolutamente preferibile per lui (G. Giannantoni, Che cosa ha ‘veramente’ detto Socrate, Roma 1971).
Affermare che nessuno sbaglia volontariamente è, insomma, solo metà della tesi socratica. L’altra metà impone a ciascuno di ricercare ed esaminare le proprie convinzioni – i propri pregiudizi – sottoponendole all’argomentazione razionale. Da questo punto di vista, Socrate non sottrae affatto la responsabilità agli individui. Al contrario, attribuisce loro una responsabilità grandissima: quella di non smettere mai di ricercare ed esaminare le proprie opinioni.
Caro Critone, la tua sollecitudine potrebbe avere grande valore se fosse unita a una certa correttezza. In caso contrario, quanto più è forte tanto più è gravosa. È dunque necessario che noi indaghiamo se bisogna agire così oppure no. Poiché io, non ora per la prima volta ma da sempre, sono tale da non dar retta a nient’altro di me se non alla ragione che al mio esame appaia migliore. Ora non posso certo, per il fatto che mi è toccata questa sorte, respingere i ragionamenti del passato, ma mi sembrano più o meno gli stessi, e li tengo in conto e li onoro come prima. E se ora non siamo in grado di farne di migliori, sappi che non ti darò mai il mio consenso, neppure se ancora più di adesso il potere dei più ci spaventasse come bambini, con lo spauracchio di prigioni, condanne a morte e confische di beni (Platone, Critone, 46b-c, trad. A. Taglia).
Gabriele Giannantoni, uno dei massimi interpreti di Socrate, descrive così la posizione socratica:
Socrate è convinto, come sta ad attestare la doverosità del dialéghesthai [dialogare] e dell’exetazein [sottoporre a esame], che ciascun uomo agisce in funzione del suo proprio convincimento e di una sua propria prospettiva. Da questo punto di vista nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male […], ma ciascuno agisce sempre in funzione di quello che egli crede che sia il bene e il meglio per lui. Per questo aspetto Socrate rinnova il soggetivismo dei sofisti: dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali non si esce. E tuttavia queste valutazioni, questi gusti e queste preferenze entrano in quel comune giudicare e criticare che si attua nel dialéghesthai, in cui ciascuno deve poter ritrovare l’esistenza di criteri comuni e validi universalmente. E in tal modo l’individualità della propria preferenza vien superata dalla necessità che questa preferenza possa valere anche per tutti gli altri. Fare il male vuoi dire quindi seguire un bene apparente e particolare invece del bene reale e universale, dal momento che è impossibile fare il bene se non si conosce che cosa esso sia. È questo il significato della famosa equazione di scienza e virtù, cioè il cosiddetto intellettualismo etica di Socrate, che non è da intendere nel senso di una affermazione di una priorità e di una prevalenza della ragione sulla volontà, della teoria sulla prassi; queste distinzioni su cui tanto si affaticherà la psicologia platonica non compaiono ancora nell’orizzonte mentale socratico, dove vale invece l’idea che l’agire non può non essere consapevole, cioè accompagnato da conoscenza. Solo su questi presupposti, d’altronde, e non su quelli dei sofisti, è possibile fondare la dottrina dell’insegnabilità della virtù, in quanto identica alla scienza. Da questo punto di vista, tutte le virtù particolari, come il “coraggio” , la “temperanza”, la “religiosità”, la “giustizia”, ecc. che sono al centro delle discussioni di Socrate nei dialoghi giovanili di Platone, non sono definibili particolarmente, ciascuna per sé (onde il carattere apparentemente “non conclusivo”, aporetico, dei dialoghi platonici in cui di esse si discute), ma devono essere tutte ricondotte a quell’unica “virtù in generale che è la scienza del bene e del male” […], cioè di ciò che ci si presenta come sommamente preferibile ed attraente, e di ciò che ci si presenta come sommamente dannoso e disdicevole. Perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è assolutamente preferibile per lui (G. Giannantoni, Che cosa ha ‘veramente’ detto Socrate, Roma 1971).
Affermare che nessuno sbaglia volontariamente è, insomma, solo metà della tesi socratica. L’altra metà impone a ciascuno di ricercare ed esaminare le proprie convinzioni – i propri pregiudizi – sottoponendole all’argomentazione razionale. Da questo punto di vista, Socrate non sottrae affatto la responsabilità agli individui. Al contrario, attribuisce loro una responsabilità grandissima: quella di non smettere mai di ricercare ed esaminare le proprie opinioni.