Abbattere un passato o costruire un futuro?
Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla “cancel culture”, Feltrinelli, Milano 2022, 152 p. – Tomaso Montanari, Le statue giuste, Laterza, Roma-Bari 2024, 132 p. Scheda a cura di Tommaso Scaramella.
Una contesa nel presente, per il passato e per il futuro
Pubblicati a breve distanza l’uno dall’altro, il libro dello storico dell’economia Germano Maifreda (uscito nel 2022) e quello dello storico dell’arte Tomaso Montanari (uscito nel 2024) indagano la cosiddetta cancel culture, questione diventata di stretta attualità negli ultimi anni, sulla scia di alcune ondate di protesta scoppiate in particolare negli Stati Uniti. L’espressione è entrata nell’uso nel discorso politico, nell’informazione e nei dibattiti per indicare le pratiche di contestazione portate avanti da alcuni movimenti che prendono di mira oggetti del patrimonio culturale presenti nello spazio pubblico. Si pensi per esempio alle immagini, alle statue e ai monumenti dedicati a personalità o a regimi politici del passato, che vengono imbrattatati, deformati o abbattuti, oppure di cui si richiede la rimozione, perché rappresentano plasticamente pensieri e azioni in contrasto con la sensibilità odierna, quando non apertamente offensivi verso determinati gruppi o minoranze sociali, in specie gruppi etnici, donne e omosessuali.
Cancel culture non è una definizione descrittiva o neutra: chi la adotta veicola un giudizio negativo nei confronti di chi mette in scena tali manifestazioni; all’accusa di continuare a celebrare eventi e personaggi omettendone i lati oscuri, si contrappone l’accusa di censura – censura che «cancella» una parte di storia, sgradita, nel nome dell’odierno politicamente corretto (di volta in volta stigmatizzato come anacronistico, ignorante, conformista…).
In realtà, una lettura più approfondita della questione, com’è quella proposta dagli autori di questi due libri, fa emergere la complessità che contiene la “patrimonializzazione” della cultura, ovvero il riconoscimento del valore pubblico e condiviso, dunque “universale”, di un bene culturale, per il suo interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico o bibliografico. L’elezione a bene culturale è un atto storicamente conteso e mai neutro, dove da sempre, a partire dal presente, si confrontano le diverse idee politiche di passato e di futuro, in una disputa sul giudizio storico e sulla genealogia culturale.
Cancel culture non è una definizione descrittiva o neutra: chi la adotta veicola un giudizio negativo nei confronti di chi mette in scena tali manifestazioni; all’accusa di continuare a celebrare eventi e personaggi omettendone i lati oscuri, si contrappone l’accusa di censura – censura che «cancella» una parte di storia, sgradita, nel nome dell’odierno politicamente corretto (di volta in volta stigmatizzato come anacronistico, ignorante, conformista…).
In realtà, una lettura più approfondita della questione, com’è quella proposta dagli autori di questi due libri, fa emergere la complessità che contiene la “patrimonializzazione” della cultura, ovvero il riconoscimento del valore pubblico e condiviso, dunque “universale”, di un bene culturale, per il suo interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico o bibliografico. L’elezione a bene culturale è un atto storicamente conteso e mai neutro, dove da sempre, a partire dal presente, si confrontano le diverse idee politiche di passato e di futuro, in una disputa sul giudizio storico e sulla genealogia culturale.
Non per cancellare la storia, ma per discuterla
Maifreda e Montanari affrontano questo argomento con approcci diversi. Il libro di Montanari parte da una serie di casi esemplificativi di recenti contestazioni del patrimonio culturale, per formulare una riflessione e una proposta di intervento culturale sul presente. Il libro di Maifreda ha una maggiore profondità storica: propone un percorso dalla prima età moderna alla contemporaneità sul tema della censura delle immagini. Entrambi, tuttavia, condividono una questione di fondo: il patrimonio culturale appunto non è neutro né “innato” o immutabile, ma è il frutto di processi storici.
Montanari propone una tesi originale sulla cancel culture, spostando l’attenzione dalle azioni di contestazione alle ragioni che le sostengono. La battaglia promossa da questi movimenti non riguarderebbe tanto la storia, quanto più propriamente il presente e il futuro. Essa è portata avanti da gruppi sociali che si sentono tuttora oppressi, i quali se la prendono con le statue e i monumenti perché percepiti come simbolo di oppressione da superare per raggiungere una società più giusta. Non è dunque la rabbia di “pochi” contro il patrimonio di “tutti”; non è lo scontro tra chi vuole cancellare la storia e chi invece si erge a difensore dell’arte e del passato, dai quali vorrebbe trarre il fondamento di tradizioni identitarie locali e nazionali. L’obiettivo della protesta non è il passato in sé, sostiene insomma Montanari, ma quello di riuscire a dare un nuovo senso ai manufatti culturali, interrogandosi in maniera plurale e condivisa sulle modalità per rendere le statue “giuste”.
Anche al centro del ragionamento di Maifreda si trovano i processi di produzione delle immagini culturali presenti nello spazio pubblico, sottostanti alla loro intenzionale trasmissione e conservazione nel tempo. Se è politico ogni atto di cancellazione, è altrettanto politico il fatto che quell’immagine abbia assunto quella posizione nello spazio pubblico e nel patrimonio. Nessuna traccia del passato è giunta a noi in maniera intatta e neutra: essa è piuttosto il risultato finale dello sforzo compiuto dalle società passate per cercare di imporre al futuro una determinata visione di sé. Prendere coscienza dei processi di produzione delle immagini permette di superare l’idea che esse siano incontestabili, rendendo plurale una realtà che appare ingannevolmente unica. La contestazione politicamente fondata delle immagini diventa un’operazione che mette chi la esercita in una relazione di comprensione critica del passato. Quindi un atto che, lungi dal voler cancellare la storia, la prende invece sul serio, al posto di subirla passivamente o di evitare di interrogarsi sulle sue tracce presenti lungo le strade e al centro delle piazze.
Montanari propone una tesi originale sulla cancel culture, spostando l’attenzione dalle azioni di contestazione alle ragioni che le sostengono. La battaglia promossa da questi movimenti non riguarderebbe tanto la storia, quanto più propriamente il presente e il futuro. Essa è portata avanti da gruppi sociali che si sentono tuttora oppressi, i quali se la prendono con le statue e i monumenti perché percepiti come simbolo di oppressione da superare per raggiungere una società più giusta. Non è dunque la rabbia di “pochi” contro il patrimonio di “tutti”; non è lo scontro tra chi vuole cancellare la storia e chi invece si erge a difensore dell’arte e del passato, dai quali vorrebbe trarre il fondamento di tradizioni identitarie locali e nazionali. L’obiettivo della protesta non è il passato in sé, sostiene insomma Montanari, ma quello di riuscire a dare un nuovo senso ai manufatti culturali, interrogandosi in maniera plurale e condivisa sulle modalità per rendere le statue “giuste”.
Anche al centro del ragionamento di Maifreda si trovano i processi di produzione delle immagini culturali presenti nello spazio pubblico, sottostanti alla loro intenzionale trasmissione e conservazione nel tempo. Se è politico ogni atto di cancellazione, è altrettanto politico il fatto che quell’immagine abbia assunto quella posizione nello spazio pubblico e nel patrimonio. Nessuna traccia del passato è giunta a noi in maniera intatta e neutra: essa è piuttosto il risultato finale dello sforzo compiuto dalle società passate per cercare di imporre al futuro una determinata visione di sé. Prendere coscienza dei processi di produzione delle immagini permette di superare l’idea che esse siano incontestabili, rendendo plurale una realtà che appare ingannevolmente unica. La contestazione politicamente fondata delle immagini diventa un’operazione che mette chi la esercita in una relazione di comprensione critica del passato. Quindi un atto che, lungi dal voler cancellare la storia, la prende invece sul serio, al posto di subirla passivamente o di evitare di interrogarsi sulle sue tracce presenti lungo le strade e al centro delle piazze.
La struttura del libro di Montanari
In cinque dei sette capitoli di Statue giuste, Montanari affronta altrettanti esempi di contestazione che hanno avuto per oggetto nei tempi recenti il patrimonio culturale:
Negli ultimi due capitoli, Riscrivere lo spazio pubblico e Risemantizzare il patrimonio culturale, Montanari fa emergere ciò che accomuna i casi di studio esposti e che abbiamo già anticipato: ossia che le pratiche di contestazione hanno il merito di interrogare l’opinione pubblica sulla sua storia collettiva, e che la decisione su cosa sia o meno “patrimonio culturale” è sempre l’esito di conflitti e negoziazioni mai definitive.
- l’abbattimento nel 2020, in una piazza della città inglese di Bristol, della statua bronzea di Edward Colston (1636-1721), filantropo e mercante, ma di schiavi, al culmine di una serie di manifestazioni ispirate al movimento Black lives matter, nato in seguito all’uccisione del cittadino americano nero George Floyd durante un fermo di polizia a Minneapolis;
- il cambio di intitolazione della cittadina di Salvia di Lucania in Savoia di Lucania avvenuto nel 1878 quale gesto di “riparazione” per l’attentato (fallito) di Giovanni Passanante, originario a Salvia, contro re Umberto I;
- il recente restauro dell’affresco di Mario Sironi tutt’oggi presente nell’aula magna della Sapienza, che ne ha portato nuovamente alla luce i simboli fascisti;
- l’imbrattamento a Milano della statua del giornalista Indro Montanelli (1909-2001) in segno di protesta per la sua partecipazione alla campagna coloniale fascista in Etiopia, dove temporaneamente “prese in moglie” una nativa dodicenne;
- le plateali azioni di sensibilizzazione contro il fenomeno del cambiamento climatico messe in atto dal movimento di Ultima generazione, che imbrattano opere d’arte o vi si legano, senza però voler provocare danni permanenti.
Negli ultimi due capitoli, Riscrivere lo spazio pubblico e Risemantizzare il patrimonio culturale, Montanari fa emergere ciò che accomuna i casi di studio esposti e che abbiamo già anticipato: ossia che le pratiche di contestazione hanno il merito di interrogare l’opinione pubblica sulla sua storia collettiva, e che la decisione su cosa sia o meno “patrimonio culturale” è sempre l’esito di conflitti e negoziazioni mai definitive.
La struttura del libro di Maifreda
Immagini contese si compone invece di tre capitoli, nei quali Maifreda analizza il rapporto tra potere e immagini.
Il primo è dedicato alla prima età moderna e si sofferma sulla disputa che, nel giugno del 1625, contrappose le autorità civili e religiose mantovane alla locale comunità ebraica. Oggetto del contendere era un quadro di un modesto pittore, Vincenzo Sanvito, che raffigurava l’esecuzione per impiccagione di sette ebrei, avvenuta nell’agosto del 1602. Alcuni discendenti ne chiesero la distruzione, ma questo riaprì il contrasto mai risolto fra le diverse comunità religiose, mostrando la lunga durata del ruolo politico delle immagini.
Il secondo capitolo verte sull’Italia unita ottocentesca, e prende a esempio la censura operata dai regimi politici sulle produzioni intellettuali basandosi sui cataloghi della casa editrice milanese Ricordi. Viene poi ricordata l’inaugurazione delle statue dedicate a Paolo Sarpi a Venezia nel 1888 e a Giordano Bruno a Roma nel 1889. Entrambi, secoli prima, erano stati condannati dalla Chiesa per il loro pensiero non conforme; la loro celebrazione postuma segnalava il nuovo corso dei rapporti di forza tra il potere laico risorgimentale e quello religioso.
Al Novecento è dedicato infine il terzo capitolo, che ha per oggetto l’uso pubblico delle immagini nella costruzione del nemico durante la Seconda guerra mondiale, ma anche la censura operata nei confronti del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui il regista Pier Paolo Pasolini trasfigurava l’opera del marchese de Sade ambientandola nel contesto della Repubblica Sociale Italiana. I tagli richiesti dalle diverse commissioni ministeriali esplicitano il rapporto tra potere e immagini e la limitazione della libertà di espressione.
Il primo è dedicato alla prima età moderna e si sofferma sulla disputa che, nel giugno del 1625, contrappose le autorità civili e religiose mantovane alla locale comunità ebraica. Oggetto del contendere era un quadro di un modesto pittore, Vincenzo Sanvito, che raffigurava l’esecuzione per impiccagione di sette ebrei, avvenuta nell’agosto del 1602. Alcuni discendenti ne chiesero la distruzione, ma questo riaprì il contrasto mai risolto fra le diverse comunità religiose, mostrando la lunga durata del ruolo politico delle immagini.
Il secondo capitolo verte sull’Italia unita ottocentesca, e prende a esempio la censura operata dai regimi politici sulle produzioni intellettuali basandosi sui cataloghi della casa editrice milanese Ricordi. Viene poi ricordata l’inaugurazione delle statue dedicate a Paolo Sarpi a Venezia nel 1888 e a Giordano Bruno a Roma nel 1889. Entrambi, secoli prima, erano stati condannati dalla Chiesa per il loro pensiero non conforme; la loro celebrazione postuma segnalava il nuovo corso dei rapporti di forza tra il potere laico risorgimentale e quello religioso.
Al Novecento è dedicato infine il terzo capitolo, che ha per oggetto l’uso pubblico delle immagini nella costruzione del nemico durante la Seconda guerra mondiale, ma anche la censura operata nei confronti del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, in cui il regista Pier Paolo Pasolini trasfigurava l’opera del marchese de Sade ambientandola nel contesto della Repubblica Sociale Italiana. I tagli richiesti dalle diverse commissioni ministeriali esplicitano il rapporto tra potere e immagini e la limitazione della libertà di espressione.
La proposta degli autori: “risignificare” il patrimonio
Le statue come le immagini non sono mai oggettive, la loro presenza nello spazio pubblico è il risultato di una volontà politica, che indirizza nel presente e nel futuro la propria visione e la propria rappresentazione. Per il fatto di essere l’esito di una mediazione e di non costituire mai un assoluto definitivo, gli oggetti del patrimonio culturale possono e devono essere messi in discussione. Non per cancellare una parte della storia, ma per fare in modo che “tutta” la storia sia ricordata, non solo quella favorevole ai poteri passati e presenti, riabilitando il punto di vista dei vinti e degli oppressi. Osserva Montanari che dietro all’etichetta (negativa) di cancel culture sta la reazione di coloro che vogliono mantenere inalterato lo status quo. La proposta allora non è quella di “cancellare” le opere d’arte, ma di prendere consapevolezza della loro storia, ovvero di parlare delle immagini nell’epoca delle immagini, come propone Maifreda; di cambiare la lettura di statue e monumenti, come propone Montanari, per esempio destinandole a una diversa funzione, spostandole nei musei, dove possibile, oppure rendendole oggetto di percorsi condivisi con le diverse comunità che ne commentino la storia e la provenienza anche con nuove didascalie da apporre accanto a esse. “Risignificazione” del patrimonio culturale è la strada proposta dagli autori di questi due libri.