Il potere della censura ecclesiastica
Giorgio Caravale, Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna, Laterza, Roma-Bari 2022, 533 p.; scheda a cura di Tommaso Scaramella
I tanti versanti della questione
Giorgio Caravale, studioso specialista di storia culturale e religiosa, traccia un quadro complessivo e originale della censura libraria nel contesto italiano della prima età moderna. Da un lato, la sua ricerca ricostruisce la storia delle principali iniziative ecclesiastiche – l’Inquisizione romana e l’Indice dei libri proibiti – volte a controllare e a limitare la diffusione di un sapere che, all’indomani dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e della Riforma protestante, appariva una minaccia per l’ortodossia cattolica. Dall’altro accompagna chi legge nell’ambiente culturale dell’epoca, seguendo le sorti di autori, stampatori, lettori, traduttori, consultori, censori… sino al XVIII secolo, quando si avvia al declino l’attività censoria della Chiesa così come si era configurata in età moderna.
«Pericoli» per chi, «tutele» di chi
Caravale dedica ai «libri pericolosi» venticinque capitoli, suddivisi in cinque sezioni. Nella prima sezione, intitolata Nel mondo del libro, riflette sulla portata dei cambiamenti culturali introdotti dalla crescente diffusione di massa del prodotto a stampa all’inizio dell’età moderna. Di fronte a un veicolo di idee e dottrine rapido e potenzialmente pericoloso, quale poteva essere la stampa, le autorità civili e religiose cercarono di rendere il libro un oggetto formalmente controllabile. Mediante, rispettivamente, il rilascio di un privilegio (ovvero diritto) di stampa preventivo, e dell’imprimatur (il permesso: «si stampi»), esse agirono per «tutelare» l’integrità dei lettori, sudditi e fedeli, vietando la diffusione di quei libri che esse giudicavano dannosi sul piano morale, sociale e intellettuale.
La Chiesa mise a punto un Indice, ovvero un elenco, di libri che i fedeli non potevano leggere; il primo fu redatto nel 1558 sotto il pontificato di Paolo IV, seguirono poi diversi aggiornamenti per opera di un’apposita congregazione creata nel 1571. Gli elenchi censori (seconda sezione, Libri sotto controllo) contenevano non solo testi giudicati contrari all’ortodossia cattolica, e perciò tacciati di eresia, ma anche generiche offese alla reputazione degli ecclesiastici e della Chiesa, propaganda delle nuove idee scientifiche, di dottrine magiche, sortilegi e superstizioni, opere lascive e di argomento amoroso. Ma tra i libri proibiti dalla Chiesa, in piena Controriforma, ci fu anche la Bibbia, che non doveva essere letta senza l’intermediazione del sacerdote (al contrario di quanto stava accadendo in campo protestante).
La Chiesa mise a punto un Indice, ovvero un elenco, di libri che i fedeli non potevano leggere; il primo fu redatto nel 1558 sotto il pontificato di Paolo IV, seguirono poi diversi aggiornamenti per opera di un’apposita congregazione creata nel 1571. Gli elenchi censori (seconda sezione, Libri sotto controllo) contenevano non solo testi giudicati contrari all’ortodossia cattolica, e perciò tacciati di eresia, ma anche generiche offese alla reputazione degli ecclesiastici e della Chiesa, propaganda delle nuove idee scientifiche, di dottrine magiche, sortilegi e superstizioni, opere lascive e di argomento amoroso. Ma tra i libri proibiti dalla Chiesa, in piena Controriforma, ci fu anche la Bibbia, che non doveva essere letta senza l’intermediazione del sacerdote (al contrario di quanto stava accadendo in campo protestante).
La censura all’opera
Nella terza sezione del suo libro (Verso il basso), Caravale sposta l’attenzione sulle difficoltà materiali incontrate dalle autorità religiose per controllare il sapere, determinate soprattutto dalla varietà di forme e di canali comunicativi implicati. Scritti in volgare (più pericolosi perché accessibili all’ampio pubblico dei «senza lettere» che non sapevano il latino), opuscoli e fogli volanti, spesso venduti a pochi soldi, sfuggivano dal controllo censorio.
Al florido mercato clandestino dei libri proibiti e alle resistenze opposte da librai e lettori, infine, sono dedicati i capitoli contenuti nella quinta sezione, Leggere, nonostante tutto.
La quarta sezione, Il libro mutilato, entra nel vivo della pratica censoria, effettuata non sempre ordinando la censura integrale di un’opera, ma con l’espurgazione di singoli passaggi ritenuti problematici, in alcuni casi destinati a essere riscritti. Per sfuggire alla censura derivarono degli interessanti espedienti, quali per esempio le pratiche preventive di autocensura e dissimulazione, ma anche la pubblicazione nella forma manoscritta (dunque abbandonando la tecnologia della stampa) oppure al di fuori del territorio italiano. Autocensura e dissimulazione, in particolare, mostrano come la censura riuscì a plasmare sin nell’animo gli autori, specie quelli della «seconda generazione», nati e cresciuti a cavallo fra Cinque e Seicento quando il sistema dell’Indice già operava a pieno regime. In questi casi, l’autocensura appare come una forma ormai consapevole, deliberata e preventiva di limitazione della propria attività intellettuale, esito di un «tormento» di coscienza che funzionava per tenersi al riparo da spiacevoli conseguenze (p. 280). Allo stesso modo, «indossare una maschera» in pubblico (p. 292), adottando un linguaggio dissimulato fatto di allusioni e giri di parole, serviva a evitare di attirare l’attenzione del censore, riuscendo ad aggirare i meccanismi della censura.
Al florido mercato clandestino dei libri proibiti e alle resistenze opposte da librai e lettori, infine, sono dedicati i capitoli contenuti nella quinta sezione, Leggere, nonostante tutto.
La quarta sezione, Il libro mutilato, entra nel vivo della pratica censoria, effettuata non sempre ordinando la censura integrale di un’opera, ma con l’espurgazione di singoli passaggi ritenuti problematici, in alcuni casi destinati a essere riscritti. Per sfuggire alla censura derivarono degli interessanti espedienti, quali per esempio le pratiche preventive di autocensura e dissimulazione, ma anche la pubblicazione nella forma manoscritta (dunque abbandonando la tecnologia della stampa) oppure al di fuori del territorio italiano. Autocensura e dissimulazione, in particolare, mostrano come la censura riuscì a plasmare sin nell’animo gli autori, specie quelli della «seconda generazione», nati e cresciuti a cavallo fra Cinque e Seicento quando il sistema dell’Indice già operava a pieno regime. In questi casi, l’autocensura appare come una forma ormai consapevole, deliberata e preventiva di limitazione della propria attività intellettuale, esito di un «tormento» di coscienza che funzionava per tenersi al riparo da spiacevoli conseguenze (p. 280). Allo stesso modo, «indossare una maschera» in pubblico (p. 292), adottando un linguaggio dissimulato fatto di allusioni e giri di parole, serviva a evitare di attirare l’attenzione del censore, riuscendo ad aggirare i meccanismi della censura.
Una questione sempre attuale
Nel corso degli ultimi decenni, in seguito all’apertura degli archivi del Sant’Uffizio, nel 1998, sono stati prodotti diversi studi sul funzionamento delle congregazioni cardinalizie implicate nella censura libraria. Il lavoro di ricerca di Caravale, durato oltre dieci anni, ha il merito di aggiungere un tassello fondamentale alla storia della censura ecclesiastica e, più in generale, della storia della cultura italiana di età moderna. L’aver adottato come lente di analisi trasversale la storia del libro ha permesso all’autore di aprire diversi e attuali spunti: dal sistema editoriale nel suo complesso alle questioni legate all’alfabetizzazione dei lettori; dalle ragioni del diritto d’autore e della libertà intellettuale all’attività di censura svolta trasversalmente nel corso del tempo e nello spazio, ora dalle autorità ecclesiastiche ora da quelle statali, mostrando come, pur cambiando il contesto storico, la storia della censura coincida con la storia del potere, quale esso sia. Come ricorda l’autore nell’introduzione, del resto, «ancora oggi, in alcune regioni del globo, le autorità di governo utilizzano strumenti repressivi». Si pensi, per esempio, al controllo del flusso di informazioni operato da Cina, Russia e India sui social network per evitare la diffusione di forme di dissenso e rivolta nei confronti dei governi. Oppure agli strumenti non certo coercitivi, ma di fatto condizionanti, che sono a disposizione anche delle democrazie liberali occidentali: «forme di pressione che si riverberano sulla sensibilità del pubblico, sulle mode culturali e sulle logiche del mercato editoriale e comunicativo, indirizzando il pensiero e l’azione […], le scelte dei cittadini» (p. 3).