L’Antropocene e Il cambiamento climatico: quale futuro?

Giornata mondiale della Filosofia

Le origini del pensiero ecologico

L’ecologia come disciplina scientifica nasce nel 1866, quando Ernst Haeckel la definisce «Lo studio dell’economia della natura e delle relazioni degli animali con l’ambiente inorganico e organico». Si parlava di un’“economia” della natura perché si trattava delle relazioni tra esseri viventi fra di loro e con l’ambiente mosse dall’obiettivo fondamentale dei viventi, cioè la sopravvivenza, che Charles Darwin aveva da poco messo in rilievo nella sua teoria dell’evoluzione. In questo campo di indagine era già presente l’attenzione all’impatto che lo sfruttamento umano delle risorse naturali poteva avere sull’equilibrio ambientale. Già alla fine dell’Ottocento, negli Stati Uniti vennero istituiti i primi Parchi nazionali e Riserve naturali, e una sensibilità per la tutela dell’ambiente accomunava intellettuali e politici di orientamenti diversi. Tuttavia, ci sarebbe voluto ancora circa un secolo perché gli scienziati dedicassero speciale attenzione al riscaldamento globale dell’atmosfera prodotto dal rilascio di gas come l’anidride carbonica.

 

Il riscaldamento globale e le sue conseguenze

Il riscaldamento globale – che ha avuto un’impennata con la rivoluzione industriale e con il conseguente aumento dell’uso di combustibili fossili – ha come conseguenze di lungo periodo la deforestazione, la desertificazione di intere aree del pianeta, lo scioglimento dei ghiacci polari e l’innalzamento dei mari, l’estinzione di numerose specie viventi e in generale la distruzione di un equilibrio ambientale che ha già conseguenze pesanti sulla società umana, producendo eventi catastrofici e profughi climatici. Benché la questione sia divenuta da alcuni decenni oggetto di comunicazione pubblica e diplomazia, gli accordi internazionali sul cambiamento climatico, come quelli sottoscritti al Summit di Rio de Janeiro nel 1992 o gli accordi di Parigi del 2015, non hanno portato a significativi cambiamenti nell’attività produttiva globale. Di conseguenza l’aumento della temperatura media nei prossimi decenni è ormai una certezza: l’unica cosa che ad oggi può ancora essere modificabile dall’azione umana è il grado di questo aumento, che potrà essere di 2 gradi o oltre, con diverse conseguenze. 

 

Antropocene e filosofia: l’analisi di Jamieson

Si parla ormai di una nuova epoca geologica, l’Antropocene (dal greco ántropos, “uomo”, e -cene, “recente”, dal greco kainós), definita dall’impatto che la civiltà umana ha avuto sulla Terra, dalla crosta terrestre all’atmosfera, e che potrebbe condurre a una nuova e repentina estinzione di massa sul nostro pianeta. Ma l’aspra contrapposizione di diversi punti di vista su come bisogna agire in merito a queste cupe prospettive ha finora paralizzato le istituzioni politiche di tutto il mondo.

I filosofi hanno per lo più trascurato questo problema. Nel secondo Dopoguerra, quando iniziavano ad aumentare gli studi scientifici sul riscaldamento globale, la sensibilità ecologica dei filosofi era attratta soprattutto dal problema della bomba atomica e dall’inquinamento delle scorie radioattive. Questo problema a sua volta chiamava in causa questioni etiche e politiche, ma era legato a una minaccia più prossima, che molti temevano imminente: quella di una guerra combattuta con armi atomiche. 

Oggi, mentre è troppo tardi per prevenire del tutto gli effetti del cambiamento climatico, il tema sta diventando invece centrale anche in filosofia. Il filosofo Dale Jamieson, nel saggio Il tramonto della ragione. L’uomo e la sfida del clima (2014), ha dedicato uno studio eccellente alla storia e all’analisi del problema ecologico global. Nel primo capitolo, Jamieson ricostruisce nei dettagli lo sviluppo degli studi sul cambiamento climatico, l’inizio della discussione politica internazionale sulla riduzione delle emissioni dei gas responsabili del riscaldamento, in quello che definisce «il più grande problema di azione collettiva mai affrontato nel mondo». Jamieson infatti riconosce senza mezzi termini che il processo diplomatico internazionale maturato negli ultimi decenni del Novecento è fallito:

“Nel 1992, al Summit della Terra di Rio, ebbe luogo il più grande convegno di capi di Stato mai riunitosi – e più di 17.000 persone parteciparono al forum alternativo delle Ong [Organizzazioni non governative]: questo evento segnò l’inizio di un movimento ambientalista su scala autenticamente globale. L’atmosfera era permeata di un ottimismo esaltante: il sogno di Rio era che i paesi del Nord e del Sud unissero le forze per proteggere l’ambiente globale e sollevare i poveri di tutto il mondo dalla loro condizione. Dopo quasi vent’anni di tentativi, alla conferenza sui cambiamenti climatici di Copenaghen del 2009 apparve chiaro che quel sogno era naufragato. Ormai, la speranza che la popolazione mondiale risolvesse il problema del cambiamento climatico mediante un mutamento di valori a livello globale s’era spenta. Quello che voglio capire è che cosa accadde, negli anni tra Rio e Copenaghen, per portarci dove ci troviamo adesso. Comprenderlo è fondamentale per sopravvivere al futuro” (Dale Jamieson, Il tramonto della ragione. L’uomo e la sfida del clima, 2014)

 

La necessaria collaborazione tra scienza e politica

Uno degli aspetti più interessanti affrontati da Jamieson è proprio l’analisi dei vari ostacoli che hanno finora impedito un’azione collettiva contro il mutamento climatico. In primo luogo c’è una diffusa ignoranza scientifica, per cui cospicue percentuali della popolazione mondiale ignorano o non capiscono il problema del cambiamento climatico. C’è poi anche una difficoltà a comprendere l’intreccio di scienza e interessi: la scienza del cambiamento climatico non è separabile dall’impegno politico, perché la scienza produce modelli e previsioni per i prossimi decenni, ma i processi naturali che si realizzeranno effettivamente dipendono dalle politiche che nel frattempo saranno adottate dai maggiori produttori di gas responsabili del riscaldamento globale. Pertanto mantenere la distanza tra scienza e politica, spesso sottolineata da entrambi i fronti, è dannosa. 

 

Negazionismo climatico e rapporto fra consuetudine/credenza e scienza

C’è poi il consapevole e strategico impegno a promuovere il negazionismo climatico da parte di chi è interessato a evitare le trasformazioni economiche e culturali richieste da un’azione contro il cambiamento climatico, come la riduzione del consumo di energie e del consumo alimentare di carne (che per via dell’allevamento di massa è un’altra causa del riscaldamento globale). Un punto epistemologicamente cruciale di questi orientamenti è che essi approfittano di una caratteristica della scienza: il suo trattare di incertezza e probabilità piuttosto che di certezze assolute, per screditarla. Ecco le parole di Jamieson:

“La negazione del cambiamento climatico fa spesso leva sull’ignoranza del pubblico per quanto riguarda scienza e linguaggio scientifico. Da un punto di vista epistemologico, gli scienziati sono conservatori, e parlano in termini di incertezza e probabilità: dalla loro prospettiva, quasi ogni asserzione è avvolta in una nube di incertezza. Noi però nella nostra vita quotidiana abbiamo la tendenza a considerare screditante l’ammissione di incertezza. Perché se diciamo che qualcosa è incerta, spesso intendiamo dire che non vi è alcun dato a sostenerla, nessun modo di sapere se è vera, oppure che non vi è ragione di crederla vera al posto di un’altra. Per esempio, se sono incerto sul fatto d’avere o meno pagato la bolletta dell’acqua, è naturale pensare che non vi sia ragione di credere che l’abbia fatto. Per questo motivo, il riconoscimento delle incertezze riguardanti i modelli climatici viene facilmente considerato un invito a ignorare quello che i modelli stessi ci stanno dicendo (soprattutto perché di solito ci dicono cose che non vorremmo sentire). Queste differenze tra uso corrente e uso scientifico del linguaggio creano una sorta di nicchia sfruttabile dai negazionisti, i quali passano al vaglio la letteratura scientifica a caccia di incertezze, e poi le riformulano in tono sprezzante nei forum popolari, dove fanno loro assumere peso e significato diversi; un pubblico non sofisticato interpreta prevedibilmente l’ammissione dell’incertezza da parte di uno scienziato come il riconoscimento che non vi sia ragione di prendere sul serio quanto va affermando”.

Questo movimento di disinformazione globale è rafforzato dalla tendenza psicologica umana a mantenere le proprie idee e a non rinunciare alle proprie abitudini e ai propri valori tradizionali. Questo promuove un approccio alla scienza che riduca al massimo l’impatto sulle nostre credenze, e scoraggia l’approccio alternativo, fondato sull’attenzione alle procedure di studio della natura e all’evidenza scientifica che ne risulta, per quanto difficile da accettare.

Così, continua Jamieson, le organizzazioni che promuovono il negazionismo climatico soprattutto negli Stati Uniti (un paese che si è finora rifiutato di sottoscrivere i maggiori protocolli di impegno per la riduzione delle emissioni)

“hanno la sensazione che – se la scienza si rivelasse una via sicura – loro si troverebbero sotto pressione, costrette a rinunciare a parte delle loro idee politiche. Poiché considerano queste ultime immutabili, respingono la scienza che temono possa minacciarle. Spesso, anzi, attribuiscono motivazioni simili a coloro che abbracciano la scienza, giacché la considerano una sorta di sotterfugio per limitare libertà e diritti individuali.

 

Difficoltà di un’azione politica comune

C’è poi una difficoltà intrinseca delle istituzioni nazionali, democratiche e non, ad agire congiuntamente: per mettere in atto gli accordi internazionali i governi devono realizzare politiche che possono risultare impopolari in ottica domestica. Per esempio, i paesi più sviluppati devono compensare quelli meno sviluppati per permettere che questi riducano le emissioni senza arrestare lo sviluppo economico. In caso contrario, questi ultimi non si convinceranno mai a rallentare le proprie economie. Operazioni di riequilibrio globale come queste, che pure risultano necessarie guardando alle prossime generazioni, di fatto ostacolano la politica nel presente. Inoltre, la discussione sui modelli economici e sui principi etici che dovrebbero guidare questa azione collettiva e globale pongono ulteriori freni all’azione.

 

Ostacoli cognitivi e psicologici per lo sviluppo della sensibilità ecologica

Ma ci sono anche dei limiti cognitivi e psicologici degli esseri umani che costituiscono un ostacolo fondamentale alla diffusione della sensibilità ecologica. Come osserva Jamieson:

“Noi siamo evoluti in modo da rispondere a rapidi movimenti di oggetti di medie dimensioni, non al lento accumularsi nell’atmosfera di gas la cui presenza è impercettibile. La maggior parte di noi risponde platealmente a ciò che avverte con i sensi, non a ciò che ha in mente. Di conseguenza, anche quelli di noi che sono preoccupati per il cambiamento climatico trovano difficile coglierne l’urgenza e agire in modo risoluto.

Jamieson confronta la nostra reazione al furto di una bicicletta con quelle di un’azione che potrebbe avere conseguenze ancora più gravi in futuro, ma per ora invisibili. Un modello di atto moralmente discutibile è, per esempio, il furto della bicicletta di Jill da parte di Jack. Qui Jack danneggia intenzionalmente un altro individuo; entrambi – chi esegue l’atto e chi lo subisce – sono chiaramente identificabili; e tra i due vi è uno stretto legame nel tempo e nello spazio. Questo è un caso chiaro che ben si presta a una valutazione morale, e la maggior parte di noi direbbe che l’azione di Jack è sbagliata.

“Se però alteriamo la situazione intervenendo su diverse dimensioni, ecco che la pretesa di questo caso – di essere paradigmatico ai fini della valutazione morale – si indebolisce. Supponiamo che, agendo in modo tra loro indipendente, Jack e un gran numero di persone che non si conoscono mettano in moto una catena di eventi tale da impedire in futuro a moltissimi altri esseri umani, in qualche altra parte del mondo, di possedere una bicicletta: in questo scenario gran parte di ciò che in genere è alla base di un atto moralmente discutibile è scomparso. Per questo motivo, la gente tende a considerare questo caso come un esempio in cui la scorrettezza delle azioni e la responsabilità degli agenti sono enormemente attenuate rispetto allo scenario del furto della bicicletta di Jill da parte di Jack. Molti degli atti che contribuiscono al cambiamento climatico sono più simili a questo secondo caso che non al furto di Jack ai danni di Jill; pertanto non sorprende che siano in tanti a non considerare moralmente problematiche azioni come guidare l’auto o prendere l’aereo. In effetti, poiché le due cose – guidare l’auto e viaggiare in aereo da una parte, e il cambiamento climatico dall’altra – hanno luogo su scale diverse, il loro rapporto è più complesso e indiretto di quello tra l’azione di Jack e tutte quelle persone che in futuro non avranno una bicicletta”.

I limiti di economia ed etica

Il punto è che il cambiamento climatico non è un fenomeno che si manifesta qui e ora, ma un processo statistico, che spiega una tendenza globale piuttosto che singoli eventi. Nel tempo gli effetti saranno certi e sensibili, ma il tempo della nostra attenzione è più stretto, e come umani tendiamo a privilegiare, sempre per ragioni evolutive, un beneficio a breve termine su uno futuro che riguarderà i nostri discendenti. In generale, per Jamieson, sia l’economia sia l’etica sembrano incapaci di affrontare il problema efficacemente: l’economia rimanda all’etica, perché tutti i modelli economici applicati alla riduzione delle emissioni non tengono conto di questioni e valori che non sono esprimibili in termini di profitti. L’etica perché il carattere distribuito nello spazio e nel tempo dei processi climatici non si riesce ad associare facilmente alle nostre intuizioni sulla responsabilità e i diritti: chi può dirsi il responsabile dei danni futuri, se quasi ogni azione è connessa a un sistema globale che produrrà quegli effetti? E come possiamo agire, se il nostro contributo individuale a questa situazione globale appare trascurabile?

 

 

Un nuovo rapporto empatico con la natura e i viventi

Il problema che si pone è come sviluppare e promuovere una sensibilità ecologica collettiva a fronte di questi ostacoli psicologici. Anche in mancanza di argomenti solidi di tipo economico e etico, bisogna coltivare delle virtù, come l’umiltà e la temperanza, per modificare il nostro rapporto con la natura. Bisogna in generale promuovere un rispetto della natura che ha basi diverse, non soltanto razionali. Per esempio, questo può nascere dalla bellezza di un paesaggio minacciato dal cambiamento climatico: poiché abbiamo a cuore la bellezza di un paesaggio, come quello in cui siamo cresciuti, sapere che in pochi decenni sparirà per cause umane potrebbe allarmarci. Un’altra via possibile è quella di accrescere la consapevolezza etica della dignità degli altri esseri viventi: piante e animali che si stanno estinguendo o rischiano di estinguersi in futuro a causa della civiltà umana. Il fatto che altri animali sentano dolore e piacere può costituire un altro sprone a considerarne la dignità, uscendo dall’ottica antropocentrica in cui utili e danni riguardano solo gli uomini. In modi come questi si potrà sviluppare una visione diversa per affrontare il futuro con senso di responsabilità e partecipazione, ispirando comportamenti e politiche che riducano le conseguenze negative del cambiamento climatico sulla vita.