L’onda lunga del trumpismo

di Stefano Luconi

La continuità tra il voto del 2016 e quello del 2024

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2025 confuta le interpretazioni secondo cui il suo successo nel 2016 sarebbe stato un’aberrazione temporanea dell’orientamento elettorale, favorita dall’impopolarità della candidata democratica di allora, Hillary Clinton, e dal meccanismo di scelta indiretta del presidente, che aveva premiato il tycoon malgrado avesse ottenuto quasi 3 milioni di voti popolari in meno della sua antagonista. Il 5 novembre 2024 Trump non ha solo riconquistato la presidenza. Si è anche affermato in tutti e sette gli Stati in bilico, che di fatto hanno deciso la sfida con la candidata democratica Kamala Harris, e ha raggiunto la maggioranza del voto popolare, con un incremento di oltre tre milioni di suffragi su quelli conseguiti nel 2020 e di più di quattordici milioni rispetto a quelli ricevuti nel 2016. L’ampiezza di questo trionfo conferma, secondo il settimanale «Time», che ci troviamo nell’«Era di Trump» e ridimensiona la vittoria di Joe Biden nel 2020 a un evento fortuito e in controtendenza, scaturito da una circostanza straordinaria e probabilmente irripetibile quale il manifestarsi della pandemia del COVID-19, con il suo devastante impatto in termini sia di mortalità sia di tracollo dell’economia. In questa prospettiva, l’anomalia è stata il voto del 2020, mentre l’esito del 2024 costituisce il consolidamento di quanto già emerso nel 2016.

A collegare e consentire i due successi elettorali di Trump sono state le critiche al neoliberismo e le proposte per invertire la globalizzazione nelle sue diverse manifestazioni: il protezionismo doganale in contrapposizione all’integrazione dei mercati, il neoisolazionismo in alternativa all’internazionalismo e le restrizioni all’immigrazione in antitesi alla libera circolazione delle persone. Tale programma ha fatto presa in particolare sulle classi lavoratrici in declino, costrette a riciclarsi da operai ad addetti di un terziario connotato da basse retribuzioni e scarse garanzie, a causa di una contrazione dell’occupazione industriale attribuita alle importazioni dall’estero, in primis dalla Repubblica Popolare Cinese, e alla presunta concorrenza sleale degli immigrati più o meno irregolari a fronte di un governo federale volto a disperdere all’estero (ieri soprattutto in Medio Oriente, oggi principalmente in Ucraina) le risorse da utilizzare per risolvere i problemi interni. Nelle elezioni del novembre 2024, caratterizzate comunque da un divario contenuto nel voto popolare (il 49,9% per Trump contro il 48,4% per Harris), a fare la differenza è stato l’incremento di circa il 15% del seguito del candidato repubblicano rispetto al 2020 tra gli elettori con un reddito inferiore ai 100.000 dollari l’anno. In particolare, Trump ha conquistato il 50% dei voti di chi percepisce meno di 50.000 dollari, mentre Harris si è fermata al 48% in questa coorte ma ha raggiunto il 52% tra gli elettori con un reddito superiore ai 200.000 dollari.

 

Il pluridecennale allontanamento degli operai dal Partito democratico

Era dal 1972, quando Richard Nixon si assicurò il 57% del voto dei lavoratori manuali e l’appoggio del sindacato degli autotrasportatori, tradizionalmente legato ai democratici, che il Partito repubblicano non conquistava la maggioranza, nel caso di Trump relativa, dei suffragi degli elettori meno abbienti. Proprio in quel periodo iniziò lo scollamento del ceto operaio dal Partito democratico. Fu la conseguenza dell’emergere della deindustrializzazione in coincidenza con la percezione dei democratici come la forza politica che, soprattutto durante l’amministrazione di Lyndon B. Johnson (1963-1969), sembrava più interessata a promuovere l’integrazione razziale degli afroamericani che a varare politiche del lavoro. Gli operai licenziati rimasero delusi perché si aspettavano che il Partito democratico assumesse prioritariamente iniziative per riassorbire la disoccupazione provocata dal trasferimento di impianti produttivi all’estero – in Paesi con un costo del lavoro molto più basso che negli Stati Uniti –, che aveva iniziato a trasformare gli Stati industriali nel Nord-Est nella rust belt, la cintura della ruggine delle manifatture dismesse. Questo flusso elettorale si accentuò alla fine del decennio, in risposta alla compresenza di stagnazione economica e marcato aumento dell’inflazione (salita fino al 13,5% nel 1980) durante la presidenza del democratico Jimmy Carter, e portò negli anni Ottanta alla comparsa dei Reagan Democrats. Si trattava di elettori che, per ceto sociale, avrebbero dovuto votare per il partito democratico, ma che sostennero invece i repubblicani Ronald Reagan (creatore, tra l’altro, dello slogan Make America great again, poi ripreso da Trump), nel 1980 e 1984, e George H.W. Bush, nel 1988. 

A contenere questo fenomeno fu la constatazione che, oltre a essere internazionalisti convinti, proprio Reagan e Bush Sr. stavano incoraggiando la globalizzazione per perseguire l’egemonia statunitense a cavallo della fine della guerra fredda. Non a caso, il North American Free Trade Agreement (NAFTA) per la formazione di un’area di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico, contro cui si sarebbe scagliato Trump, fu concepito da Reagan già durante la campagna elettorale del 1980 e venne firmato da Bush Sr. nel 1992. Un ulteriore freno venne dalle politiche immigratorie. Sia Reagan sia Bush Sr. erano persuasi che l’immigrazione fosse una fonte di capitale umano che arricchiva la società americana. Così, nel 1986, il primo promulgò una parziale sanatoria per chi era entrato irregolarmente negli Stati Uniti e, nel 1990, il secondo firmò una legge che estese il numero dei visti concessi ogni anno, favorendo soprattutto i ricongiungimenti familiari, cioè l’arrivo dei parenti più stretti di chi si era già stabilito in America.

 

I precursori del trumpismo

A differenza dell’analisi pessimistica di Trump, che si insediò alla Casa Bianca nel 2017 promettendo di porre fine alla «carneficina» della povertà dei distretti operai urbani e delle fabbriche abbandonate che arrugginivano, gli aspetti neoliberisti della politica di Reagan sprizzavano ottimismo: It’s morning again in America («È di nuovo mattino in America») proclamava il titolo dell’iconico spot elettorale per la sua ricandidatura nel 1984, celebrando il riassorbimento della disoccupazione. Ma la recessione economica del 1990-1991 provocò le prime forme articolate di dissenso dalla politica neoliberista tra i repubblicani proprio per il suo impatto negativo sui livelli occupazionali. A farsene interpreti furono soprattutto Ross Perot e Patrick J. Buchanan. Il primo, un magnate texano dell’informatica che aveva disapprovato l’apice dell’internazionalismo di Bush Sr., cioè l’intervento armato per liberare il Kuwait dall’occupazione irachena nel 1991, si candidò nelle elezioni presidenziali del 1992 come indipendente e in quelle del 1996 alla testa del neocostituito Reform Party. In queste due campagne, si scagliò in particolare contro il NAFTA, al quale già nel 1992 attribuì «il suono di un gigantesco risucchio diretto a Sud», stigmatizzandolo attraverso questa metafora come la causa di un futuro drenaggio massiccio di posti di lavoro verso il Messico. L’ingresso in politica di un imprenditore miliardario su posizioni antiglobaliste precorse il fenomeno Trump, con la differenza che Perot non cercò di farsi assegnare la nomination repubblicana. Ci provò, invece, almeno inizialmente, Buchanan che, dopo aver mancato l’obiettivo nel 1992 e nel 1996, divenne il candidato del Reform Party nel 2000. Le sue posizioni furono un’anticipazione delle esternazioni di Trump: il disavanzo commerciale (all’epoca soprattutto con il Giappone) era una minaccia per l’occupazione, mentre l’innalzamento delle tariffe doganali avrebbe garantito la crescita economica statunitense e salvato posti di lavoro; l’immigrazione rappresentava un pericolo da fronteggiare con un maggiore pattugliamento del confine con il Messico per impedire gli ingressi irregolari; l’internazionalismo, a partire dall’adesione alla NATO, dilapidava risorse a beneficio di Paesi che non erano disposti a spendere per la propria difesa il corrispettivo di quanto vi investiva Washington.

Al tempo stesso, il sostegno dato da Bill Clinton alla globalizzazione suscitò accese contestazioni da parte della componente operaia del partito democratico. La principale organizzazione sindacale, l’AFL-CIO, cercò vanamente di impedire che il Congresso ratificasse il NAFTA nel 1993 e partecipò alle proteste contro il vertice della World Trade Organization a Seattle nel 1999. Però, negli anni Novanta, che rappresentarono il periodo più lungo di crescita ininterrotta dell’economia statunitense dalla Seconda guerra mondiale, solo una ristretta minoranza espresse il proprio malcontento alle urne. Clinton fu rieletto nel 1996 malgrado avesse sottoscritto oltre 200 accordi di libero scambio. Perot ottenne il 19% del voto popolare nel 1992 e l’8% nel 1996. Buchanan fu sconfitto con ampio margine nelle primarie repubblicane del 1992 e del 1996 e conseguì appena lo 0,4% nelle elezioni del 2000.

 

Da Buchanan a Trump

La trasformazione della Repubblica Popolare Cinese da grande mercato a disposizione delle aziende americane durante gli anni Novanta del Novecento nell’odierno rivale commerciale degli Stati Uniti, anche sul mercato interno americano, ha cambiato l’orientamento di voto di quello che resta del ceto operaio e ha dato libero sfogo a chi si è sentito lasciato indietro dalla globalizzazione. In riferimento alla débâcle elettorale del repubblicano Barry Goldwater, che nel 1964 si presentò con un programma anticipatore del trionfo reaganiano del 1980, l’editorialista politico del quotidiano «Washington Post» George F. Will ha osservato che, dalla prospettiva dei conservatori, ci vollero sedici anni per contare i voti del 1964 e alla fine risultò che Goldwater aveva vinto. Forse sono stati necessari altri sedici anni per scrutinare anche le schede del 2000 e accorgersi che il successo era andato a Buchanan.

 

Per approfondire

Lo spot elettorale di Ronald Reagan ricordato nel testo, It’s morning again in America, è visibile qui (caricato della Ronald Reagan Presidential Foundation)

I discorsi inaugurali del presidente Donald Trump si possono leggere sul sito della Casa Bianca, qui quello del 20 gennaio 2025 e qui quello del 20 gennaio 2017

Letture consigliate

Giovanni Borgognone, «We the People»? Le idee politiche degli Stati Uniti dalle origini all’era di Trump, Mondadori Education, Milano 2020

Patrick J. Buchanan, The Great Betrayal. How American Sovereignty and Social Justice Are Being Sacrificed to the Gods of Global Economy, Little, Brown and Company, Boston 1998

Patrick J. Buchanan, A Republic, Not an Empire. Reclaiming America’s Destiny, Regnery, Washington, DC 1999

Jefferson Cowie, Stayin’ Alive. The 1970s and the Last Days of the Working Class, New Press, New York 2010

Germano Dottori, La visione di Trump. Obiettivi e strategie della nuova America, Salerno Editrice, Roma 2019

Sam Jacobs, The Choice, in «Time», 30 dicembre 2024, pp. 32-33

Stefano Luconi, La «nazione indispensabile». Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump, Mondadori Education, Milano 2020

Stefano Luconi, Matteo Pretelli, «Nazione di immigrati» o «fortezza America»? Gli Stati Uniti e le minoranze etniche nel XXI secolo, Mondadori Education, Milano 2024

Glauco Maggi, Trump – La rivincita. E ora dove va l’America?, Mind Edizioni, Milano 2024

La parabola di Ronald Reagan. Da Hollywood all’ascesa dei neoconservatori, a cura di Marco Sioli, Ombre Corte, Verona 2008

Ross Perot, United We Stand. How We Can Take Back Our Country, Hyperion, New York 1992

George F. Will, Foreword, in Barry Goldwater, The Conscience of a Conservative, Princeton University Press, Princeton, NJ 2007, pp. ix-xx.

 

L’autore

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America e Storia dell’America del Nord all’Università di Padova. I suoi principali interessi di ricerca riguardano immigrazione, rapporti etno-razziali e comportamento elettorale negli Stati Uniti. Con Mondadori Education ha pubblicato i volumi «Nazione di immigrati» o «fortezza America»? Gli Stati Uniti e le minoranze etniche nel XXI secolo (2024, con Matteo Pretelli) e La «nazione indispensabile». Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020).