Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita
Novità e conseguenze per l’Italia
di Flavio Delbono, gennaio 2024
Le modifiche del Patto di Stabilità e Crescita che entreranno in vigore a partire dal 2024 richiederanno ai Paesi dell’Eurozona una disciplina fiscale diversa dal passato e, soprattutto per quelli con alto debito pubblico come l’Italia, un rispetto più stringente degli obiettivi di lungo periodo.
L'autore: Flavio Delbono è professore ordinario di Economia politica presso l'Università di Bologna. Per Mondadori Education ha pubblicato i corsi Piazza affari (2019) e Scelte sostenibili (2022).
La storia
In particolare, due sono tali obiettivi:
- rapporto tra disavanzo pubblico e PIL inferiore al 3% annuo;
- rapporto tra debito pubblico e PIL inferiore al 60%.
Il bilancio di riferimento non è quello dello Stato, bensì quello consolidato delle Pubbliche Amministrazioni, così come esso è definito da Eurostat.
Per effetto della crisi economica conseguente alla pandemia scoppiata nel 2020, il “vecchio” PSC è stato sospeso fino a tutto il 2023. Nel frattempo, la situazione della finanza pubblica è drasticamente peggiorata in quasi tutti i Paesi europei e, con poche eccezioni, i saldi sono risultati ben lontani dai due suddetti obiettivi. Se guardiamo ai dati del 2022, per esempio, l’Italia ha chiuso l’anno con un valore dell’8% nel rapporto disavanzo/PIL; la media nell’area dell’euro è stata pari al 3,6%, quindi superiore al target, con sforamenti cospicui anche da parte di Francia (4,8%) e Spagna (4,7%). Circa il rapporto debito/PIL, l’Italia presenta un valore del 141%; anche altri paesi (Belgio, Francia, Grecia, Portogallo, Spagna) mostrano valori superiori al 100% e la stessa media dell’Eurozona (91%) è ben lontana dalla soglia massima prevista del 60%.
Dopo la sospensione nel periodo 2020-23, il Consiglio Europeo ha approvato in extremis una proposta di revisione del PSC (diversa da quella emersa dalla Commissione europea), che sarà approvata probabilmente senza modifiche dal Parlamento europeo ed entrerà in vigore a partire dal 2024.
Il nuovo PSC
Innanzitutto, cessa di applicarsi l’obbligo (in realtà non rispettato), previsto dal Fiscal Compact approvato nel 2012, di abbattere il debito pubblico di 1/20 all’anno per 20 anni da parte di tutti i Paesi con un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 60%. Quest’ultima era la soglia critica prevista sia negli accordi di Maastricht sia nel PSC, che prevedevano entrambi un obiettivo di rapporto disavanzo/PIL inferiore al 3%. La regola della riduzione di 1/20 (valida per tutti Paesi ad alto debito) viene sostituita da piani poliennali di aggiustamento diversi per ciascun Paese. In particolare, per quegli Stati che presentano un rapporto tra debito pubblico e PIL superiore al 90%, è richiesta una riduzione annuale pari a un punto percentuale di PIL (sarebbero circa 22 mld di euro per l’Italia nel 2024).
A partire dal 2024, i Paesi che incorrono nella procedura di infrazione per squilibri fiscali eccessivi (cioè quelli con un rapporto disavanzo/PIL superiore al 3%) dovranno ridurre tale rapporto di almeno mezzo punto all’anno. Tuttavia, tale riduzione potrebbe essere temperata e collocarsi attorno allo 0,3%, dato che saranno temporaneamente esclusi dal computo del disavanzo i maggiori oneri finanziari sul debito pubblico causati dagli aumenti dei tassi di interesse. L’obiettivo per tutti i Paesi è quello di non superare un rapporto strutturale (ovvero, al netto del ciclo macroeconomico) tra disavanzo pubblico e PIL pari all’1,5%.
Completata la fase di rientro dallo squilibrio fiscale eccessivo, il successivo piano poliennale si può articolare su 4 anni, con un aumento dell’avanzo primario (entrate meno uscite al netto degli interessi passivi) pari almeno allo 0,9% del PIL, oppure su 7 anni, con un aumento non minore dello 0,4%.
Le implicazioni per la politica fiscale italiana
Ciò premesso, superando la soglia critica del 3% nel rapporto disavanzo/PIL, l’Italia rientrerà già dai prossimi mesi nel campo di applicazione della procedura di infrazione e sarà chiamata a rispettare i meccanismi di aggiustamento. Dal 2027, terminata auspicabilmente la fase di rientro dalla procedura, anche all’Italia si applicheranno le regole previste per i programmi poliennali. Come abbiamo notato, la loro durata è di 4 anni o di 7 anni qualora possano essere esclusi dal disavanzo quegli investimenti pubblici coerenti con alcune priorità contenute nei rispettivi piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR).
Considerata l’attuale situazione della finanza pubblica italiana, è evidente che l’eventuale flessibilità utilizzata nel prossimo triennio potrebbe appesantire il successivo aggiustamento poliennale. Per esempio, essendo l’obiettivo di disavanzo strutturale pari all’1,5% del PIL, se il nostro Paese portasse tale valore da quello previsto del 4,4% nel 2024 al 3% nel 2027 (con una riduzione media annua inferiore al mezzo punto), la distanza da colmare resterebbe ampia. Sostanziosi avanzi primari sarebbero richiesti per centrare gli obiettivi e sarebbe dunque necessario invertire l’andamento recente. L’Italia ha infatti registrato un disavanzo primario del 3,8% del PIL nel 2022 e, ne prevede uno dell’1,4% nel 2023. Tenendo ferme le attuali previsioni di calo sia dei tassi di interesse sia del tasso di inflazione, si tratta di ipotizzare manovre importanti dal lato della spesa pubblica e/o della pressione fiscale.
Ovviamente, essendo gli obiettivi europei di finanza pubblica espressi in rapporto al PIL, una crescita macroeconomica superiore a quella stimata per il 2024 (0,7%) contribuirebbe, aumentando il denominatore di entrambi i saldi, ad avvicinare l’economia italiana alle mete richieste. In questo senso, il rigoroso rispetto degli impegni (investimenti e riforme) condivisi con l’Unione Europea nell’ambito del PNRR, potrebbe giocare un ruolo di primo piano nell’alimentare una crescita del PIL più sostenuta di quella mediamente rilevata negli ultimi 15 anni.
Anche se viene indicato solitamente con l’espressione Patto di stabilità, conviene insistere sulla denominazione completa del “patto” (Patto di Stabilità e Crescita), dato che la crescita macroeconomica era originariamente, e dovrebbe continuare a rappresentare, una finalità condivisa dai Paesi dell’Eurozona.