Approfondimenti in pillole di Roberto Roveda
Scopri gli approfondimenti in pillole di Roberto Roveda, la nuova sezione della nostra rubrica Primo Piano Geostoria!
Dalla vera identità dei Troiani alle meraviglie dell'arte greca, tante curiosità per coinvolgere e stimolare la classe con piccoli approfondimenti su diversi temi della storia: mini-articoli ideali per iniziare la lezione o proporre nuovi spunti di riflessione.
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Nomi e cognomi romani
Nella Roma delle origini i cittadini avevano un unico nome ma, col tempo, i patrizi se ne dettero un secondo e poi un terzo:
- il primo era il “prenome”, cioè il nome personale del singolo individuo (tra i più diffusi c’erano Caio, Tito, Gneo, Decimo);
- il secondo era il “nome gentilizio”, cioè della gens di appartenenza e veniva trasmesso di padre in figlio (per esempio Emilio, Giulio, Fabio, Valerio);
- il terzo era il “cognome”, cioè il nome della famiglia di appartenenza, spesso derivato da caratteristiche fisiche, origine geografica, cariche o mestieri svolti da esponenti del nucleo familiare. Cognomi diffusi erano Crasso (grasso), Agricola (agricoltore), Sabino (della Sabina), Gallo (della Gallia).
Ecco alcuni esempi di nomi completi: Publio Cornelio Scipione, Tito Quinzio Flaminino, Gneo Pompeo Crasso.
Il sistema dei tre nomi divenne abituale per i patrizi, ma poi si estese a tutti i cittadini di nascita libera e, in parte, è giunto fino ai giorni nostri. Oggi, infatti, anche se non usiamo più il nome gentilizio, chiamiamo nome quello che per i Romani era il prenome e abbiamo conservato il cognome per indicare la famiglia di provenienza.
Gli organi collegiali a Roma
La colmata persiana
A volte un evento drammatico può diventare un’occasione per gli storici e per gli archeologi. Per esempio, molte delle cose che sappiamo sulla vita quotidiana degli antichi Romani le conosciamo grazie a Pompei, città che venne ricoperta dalle polveri e dalla lava del vulcano Vesuvio durante la terribile eruzione del 79 d.C.: Pompei fu sepolta e si è preservata nelle sue condizioni originarie, che oggi possiamo così ricostruire, per quasi due millenni.
Il seppellimento dei resti delle guerre
Anche durante la seconda Guerra persiana ci fu un evento drammatico che è diventato una fortuna per gli studiosi, soprattutto di arte antica. I Persiani devastarono l’Acropoli di Atene nel 480 a.C., accanendosi sui simboli della civiltà greca: templi, statue di dèi ed eroi, sepolture. Finita la guerra gli Ateniesi decisero di seppellire questi resti, in particolare le statue che per i Greci avevano un valore sacro. Si formò così la cosiddetta ‘colmata persiana’, un giacimento di opere d’arte e reperti archeologici che gli studiosi hanno cominciato a scavare e studiare alla fine dell’Ottocento.
Quasi tutte le statue più antiche della Grecia in nostro possesso e quasi tutto ciò che sappiamo sulla statuaria arcaica greca lo dobbiamo proprio alla colmata. In particolare, nel giacimento sull’Acropoli ateniese sono stati ritrovati diversi esempi di koúroi (statue di ragazzo) e di kórai (statue di ragazze), una produzione tipica dell’arte greca del VI secolo a.C.
Nasce la storiografia
Le Storie di Erodoto
La Grecia classica fu la patria della storiografia, la ricostruzione degli eventi storici, verificati e interpretati sulla scorta di determinati principi metodologici. Fu con Erodoto (484-430 a.C. circa) che il racconto storico cominciò ad acquisire le caratteristiche di una scienza. A lui dobbiamo la principale ricostruzione delle Guerre persiane. È interessante il metodo che lo storico greco usa nelle sue Storie. Prima di raccontare il lungo conflitto tra Greci e Persiani si sofferma a lungo sulla storia e sulle tradizioni di numerosi popoli. Perciò la sua opera per certi aspetti è anche etnografica e geografica: egli descrive con grande rispetto usi e costumi dei “barbari”, manifestando una predisposizione, inconsueta per i tempi, ad accettare il pluralismo culturale. Ciò che conferisce rigore al suo racconto è la cura con cui valuta l’attendibilità delle fonti; le testimonianze su cui si basa sono prevalentemente orali, ma a volte cita altri autori da lui letti (in genere per confutarli). Erodoto dichiara inoltre di essersi recato appositamente in alcune località per verificare le notizie che gli venivano riferite. Nel caso di contrasti tra le fonti, riassume le tesi diverse e poi espone il proprio punto di vista. La metodologia seguita conferisce dignità scientifica alla sua opera.
La Guerra del Peloponneso di Tucidide
La Guerra del Peloponneso offrì a Tucidide (460-404 a.C.) l’occasione per fare un altro passo in avanti nel metodo storiografico. Tucidide elimina dalla narrazione qualsiasi elemento favoloso che ancora permaneva nelle Storie di Erodoto. Il suo racconto mira a una precisa ricostruzione della realtà per individuare i meccanismi che determinano gli avvenimenti storici.
Tucidide adotta una metodologia che espone all’inizio della sua opera e il cui tratto caratterizzante è il seguente: lo studio del passato deve essere condotto con metodo critico. Nei limiti del possibile lo storico deve raccontare fatti ai quali fu presente e comunque deve controllare di persona l’autenticità delle testimonianze offerte da altri. La sua indagine non deve essere arbitraria ma ricercare il rapporto causa-effetto, distinguendo le cause occasionali da quelle reali. La successione dei fatti deve essere esposta nel rispetto della cronologia. Un percorso che si avvicina molto al metodo storico moderno.
La società persiana e il ruolo della donna
La società persiana, come di consueto nel mondo orientale antico, era di tipo piramidale, con al vertice il sovrano. Dopo il re la classe più importante era quella degli aristocratici, che si dedicavano principalmente alla guerra. Era rilevante il ruolo dei sacerdoti, che però non ottennero quasi mai anche un potere politico. Infine, i contadini e i pastori costituivano la maggioranza della popolazione. Dopo le conquiste e l’aumento dei commerci crebbe anche la schiera degli artigiani e dei mercanti.
La donna: la vita matrimoniale
Quella persiana era una società patriarcale, all’uomo spettava il ruolo del capofamiglia e gli era consentito avere più mogli (era possibile dunque la poligamia), mentre per le donne che commettevano adulterio era prevista la pena capitale. La donna persiana, però, non era priva di diritti e la sua condizione era migliore che nel mondo greco: poteva scegliere di abbandonare il marito se quest’ultimo prendeva una nuova moglie senza il suo consenso. In questo caso aveva diritto anche alla restituzione della dote.
Una società più “ugualitaria”
Nella vita pubblica era più tutelata di quanto accadeva presso altri popoli dell’epoca: le donne dell’aristocrazia avevano il diritto al possesso di beni e proprietà terriere, talvolta anche molto vaste, della cui amministrazione potevano occuparsi personalmente. Nelle classi meno elevate, a parità di mansione, il lavoro femminile garantiva il medesimo salario di quello maschile, cosa che ancora oggi non accade in molti Stati moderni, Italia compresa.
L’educazione del cittadino ateniese
Ogni cittadino ateniese maschio era tenuto a saper leggere, scrivere per poi occuparsi degli affari di Stato. A partire dai 7 anni iniziava il percorso scolastico e, dai 14 anni in poi, frequentava il ginnasio, il luogo dove i giovani si dedicavano agli esercizi fisici. Ad Atene non c’erano scuole statali, ma solo private, che ogni maestro, dietro compenso, organizzava come voleva. La base dell’insegnamento era la “musica”, che aveva un senso diverso dal nostro: comprendeva infatti tutto ciò che forma lo spirito sotto l’ispirazione delle Muse, le divinità protettrici delle arti: quindi non solo l’arte di suonare il flauto o la lira, ma anche la lettura, la scrittura e l’aritmetica.
Il senso della paidèia
Anche alcuni tra i più grandi pensatori della Grecia sentirono la necessità di occuparsi di persona dell’educazione. Il loro insegnamento, di grado per così dire superiore, spaziava dalla filosofia alla fisica, dalla matematica alle arti. Partiva dal principio che in una democrazia il cittadino, per dare un contributo alla pòlis, doveva avere una formazione (chiamata paidèia) il più completa possibile, che gli permettesse di saper valutare una proposta di legge o essere capace di sostenere la propria tesi davanti all’assemblea. Una volta terminato il suo percorso educativo il cittadino maschio ateniese acquisiva il diritto di partecipare all’ecclesìa a 18 anni, ma in pratica cominciava a parteciparvi attivamente a 20, perché doveva prima prestare il servizio militare per due anni. Il cittadino maschio di Atene aveva pieni diritti, civili e politici, e, vivendo in un regime di democrazia diretta, aveva l’opportunità di esercitarli da protagonista.
I Troiani erano Ittiti?
Per circa tre millenni gli Ittiti sono stati un popolo dimenticato. Il loro nome si ritrovava fugacemente nella Bibbia, ma nelle Sacre Scritture gli Ebrei hanno a che fare con i lontani discendenti dei guerrieri dell’Età del ferro. Solo nel 1834 sono state scoperte le rovine di Hattusas, ma bisogna attendere i primi anni del Novecento per trovare le prime testimonianze scritte sul mondo ittita.
Nel 1905-06 avvenne il ritrovamento delle tavolette che costituivano l’archivio dei sovrani di Hattusas. La loro decifrazione ha permesso la nascita di una nuova disciplina, l’ittitologia, e la ricostruzione della vicenda storica degli Ittiti. Le tavolette ci hanno regalato non solo informazioni, ma anche qualche mistero in più. Pochi anni dopo il rinvenimento degli archivi, lo svizzero Emil Forrer trovò nei testi ittiti nomi e luoghi straordinariamente somiglianti a quelli citati nei poemi omerici. Per l’archeologo svizzero e per altri esperti fu la prova che erano Ittiti gli avversari affrontati dagli eroi greci nella lunga guerra di Troia. La tesi, per quanto affascinante, scatenò moltissime polemiche e contestazioni ma venne ripresa ancora una ventina di anni fa dallo studioso tedesco Manfred Korfmann. Questi dichiarò che la città anatolica di Hissarlik, all’imbocco dei Dardanelli, poteva essere il luogo dove sorgeva la mitica Troia. La città dell’Iliade sarebbe quindi sorta in pieno territorio ittita. La maggior parte della comunità scientifica ha respinto questa identificazione e il clamore si è sopito nuovamente… almeno fino al prossimo annuncio!
La ceramica e lo stile geometrico
Tra il X e l’VIII secolo a.C., tra la fine del Medioevo ellenico e l’inizio dell’età arcaica, in Grecia si sviluppò un particolare stile artistico detto geometrico.
Questo stile trovò espressione soprattutto nella decorazione di vasi in ceramica, in cui predominava l’uso di cerchi, motivi a scacchiera e meandri, combinati tra loro in varie soluzioni. Questi elementi venivano disposti sulla superficie degli oggetti in modo da suggerire un’idea di simmetria, ordine e razionalità, ed esprimere così i concetti di kòsmos e tàxis, «armonia» e «ordine». L’aggiunta di figure umane avvenne solo in un secondo momento, in particolare nella realizzazione di scene raffiguranti cortei funebri, corse con i carri o momenti di vita quotidiana.
L’anfora funeraria del Dìpylon
L’esemplare più rappresentativo di questo tipo di decorazione vascolare (cioè relativa ai vasi) è l’anfora ritrovata nella necropoli del Dìpylon ad Atene e risalente al 750 a.C. circa. Questo recipiente, che probabilmente veniva posto sopra l’urna contenente le ceneri del defunto, è alto 155 cm e contiene due scene con figure umane: nella parte inferiore si trova una processione di carri e cavalieri, mentre in quella superiore è rappresentata la cosiddetta pròthesis, ovvero l’esposizione della persona scomparsa. Le figure sono stilizzate e hanno il busto triangolare, che si restringe in corrispondenza della vita; le gambe sono viste di profilo e le braccia sono sollevate sopra la testa in segno di disperazione. Il defunto si trova sul catafalco, sotto il quale si vedono alcune figure più piccole, che nelle intenzioni dell’artista dovevano fare da sfondo alla scena principale.